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Un “minore” cremonese nei Musei Vaticani

un articolo di Marco Tanzi

Mi fa piacere tornare sul Vascello dopo parecchio tempo, ancora una volta con una shorter notice relativa al ritrovamento di un’opera d’arte cremonese: è ancora da studiare nel dettaglio, ma vale la pena mostrarla subito al pubblico degli affezionati al nostro patrimonio artistico.

Anche quest’anno, come sempre, in maggio, ho accompagnato i miei studenti “in gita” (il termine corretto sarebbe “viaggio di studio e di istruzione”): visto che il tema dei miei corsi era sul Caravaggio li ho portati a Roma, dove poter vedere dal vivo le principali opere del genio lombardo sparse tra chiese e musei.

Per prima cosa siamo riusciti a ottenere l’ingresso nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, precluso ai turisti, cosi abbiamo potuto stazionare per buona parte della mattinata a godere, da vicinissimo, delle Storie di San Matteo in posizione assolutamente privilegiata rispetto al pubblico dei visitatori (la soddisfazione dei miei ragazzi è evidente in questa immagine, anch’essa, in qualche modo, un po’ caravaggesca).

Poi a Sant’Agostino, in Campo Marzio, tra la Madonna dei Palafrenieri e l’Isaia di Raffaello; poi in Santa Maria del Popolo – con il volto di Cristo del nostro Alceo Dossena, che torno a rivedere tutte le volte – e la cappella Cerasi: Caravaggio e Annibale Carracci, con la carissima amica Francesca Cappelletti, una delle massime studiose internazionali di Michelangelo Merisi – che insegna all’Università di Ferrara ed è, tra l’altro, vicepresidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali – che, con grandissima gentilezza, ci è venuta a fare una breve ed emozionante lezione “in presa diretta”, davanti alle opere, come ideale seguito di un bellissimo seminario tenuto per i miei studenti e i dottorandi la settimana precedente a Lecce.

Non solo Caravaggio, naturalmente: vari giri per chiese e musei, stazionando a lungo, tra l’altro, davanti a un must della mia giovinezza, la grande tavola con la Visione del Beato Amedeo Menez de Sylva nella Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini; opera del “mio” Pseudo Bramantino, il pittore spagnolo Pedro Fernández, al quale in passato avevo dedicato tanto tempo e una piccola mostra a Castelleone, promossa negli anni novanta dalla tristemente defunta APIC.

Non poteva mancare la visita ai Musei Vaticani, con transito parecchio disagevole per il troppo pubblico nella Cappella Sistina e nelle Stanze di Raffaello: al confronto la Pinacoteca sembra quasi vuota (ed è un vero peccato passare irregimentati senza poter vedere con il dovuto agio la straordinaria collezione d’arte contemporanea promossa dal grandissimo, inquieto Paolo VI).

Non posso non menzionare, visto anche l’impatto che ha avuto sui ragazzi, il saluto del direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci, che è stato nella circostanza carinissimo: si è presentato come un “vecchissimo amico” del loro professore e si è intrattenuto ricordando, quasi con commozione, di quando era soprintendente a Mantova, nell’anno della grande nevicata che ha accompagnato la preparazione della mostra dei Campi, 1985. Io poi mi ero totalmente dimenticato del fatto che Paolucci era stato nella commissione del concorso che mi fece vincere il posto conservatore della nostra Pinacoteca, dalla quale scappai molto presto: una rimozione che evidentemente ha molto a che vedere con il dottor Freud.

Eccoci dunque nelle stanze della Pinacoteca Vaticana, tra i primitivi e i fondi oro, i marchigiani e i romagnoli, gli arazzi di Raffaello, la Madonna di Foligno e la Trasfigurazione, il San Gerolamo di Leonardo, la raffaellesca Incoronazione di Monteluce, dipinta da Giulio Romano e dal Penni…

Ma dov’è la Madonna dei Frari di Tiziano che di solito è esposta proprio di fronte all’Incoronazione di Monteluce? E soprattutto, cos’è questa grande pala con un’aria così familiare che la sostituisce (foto a destra, dettaglio ravvicinato)? Passato il momento di sorpresa, ci vuole un attimo a capire che è una copia seicentesca, con qualche variante, della cosiddetta Pala Roncaroli di Giulio Campi, eseguita nel 1544 per San Domenico a Cremona, requisita dai francesi nel 1796 e data per dispersa per molto tempo, fino a quando l’ho ritrovata, una ventina di anni fa, in Palazzo Farnese a Roma, sede dell’Ambasciata di Francia, in deposito dal Louvre.

In attesa che dai Musei Vaticani mi arrivi un’immagine professionale e la scheda anagrafica del dipinto, ve la presento in una foto “da battaglia” fatta da un veterano dei miei studenti, già dai tempi della mostra del Mantegna al Louvre, nel 2008, ora dottorando, Giovanni Lacorte.

Le varianti rispetto al prototipo di Giulio Campi sono sostanzialmente due: la presenza di San Lorenzo all’estrema sinistra e la sostituzione del San Francesco campesco, inginocchiato sulla destra, con San Pio V, papa Ghislieri, il trionfatore della battaglia di Lepanto, anche questo copiato da una tela eseguita per San Domenico, la grande pala per l’altare della cappella del Rosario eseguita da Camillo Procaccini nel 1606, che ritrovai diversi anni fa nella parrocchiale di Isola Dovarese.

La tela vaticana è poi corredata da uno stemma nobiliare, che Gianni Toninelli gentilmente mi segnala – in attesa di poter vedere un’immagine meglio definita – poter essere quello della famiglia Ripari, cremonese. Il dipinto (inv. 40802) è genericamente riferito alla “Scuola italiana, seconda metà del XVI secolo”, ma si può agevolmente spostare al primo quarto del Seicento, e attribuire con il medesimo agio a un pittore cremonese ben riconoscibile: Stefano Lambri.

La cosa curiosa e assai intrigante riguarda l’attività di copista del Lambri di opere importanti del Cinquecento cremonese e, nella fattispecie, di opere presenti in San Domenico, testimoniata da altri dipinti collocati in conventi domenicani di varie zone d’Italia, grazie alla committenza di priori e inquisitori transitati dall’importantissimo monastero di Cremona. Ora, come detto, aspetto notizie più precise dalla direzione dei Musei Vaticani circa la provenienza della pala per poter dare qualche notizia più approfondita sulla sua provenienza.

Credo tuttavia che l’argomento – Stefano Lambri e i domenicani – possa essere sviscerato in maniera esaustiva in un lavoro di tesi affidato a forze più fresche delle mie. L’ho suggerito come possibile progetto di ricerca a un giovane studioso dell’Università Statale di Milano, Adam Ferrari, che spero voglia prenderlo nella dovuta considerazione e dedicarvi uno studio accurato.




La pagina è aggiornata alle ore 17:44:24 di Dom, 13 lug 2014