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di Marco Tanzi
Mantova, venerdì 4 settembre, è quasi l’una: caldo torrido. Terminiamo la mattinata di ricognizione in Palazzo Ducale in occasione di un’impegnativa ricerca in comune; il gruppo comprende, oltre a chi scrive, Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa dell’Università Statale di Milano, Stefano L’Occaso della Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici, e Daniela Sogliani del Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te.
Tocca a un ambiente al piano terreno della Rustica, il suggestivo appartamento dell’Estivale voluto dal duca Federico II Gonzaga nel 1537-1538 e progettato da Giulio Romano: il locale da vedere è occupato da un deposito di materiali della Soprintendenza per i Beni Archeologici. Solo la volta è affrescata: una loggia affollata di putti alati sulle balaustre, scandita da massicce colonne salomoniche che reggono un aereo berceaux, un padiglione cui si arrampicano frondose le viti cariche di grappoli d’uva; al centro un riquadro aperto sul cielo con altri tre puttini e una colomba tra le nubi.
Lo stato di conservazione è molto compromesso, non al punto però di non far riconoscere un esemplare precoce e straordinario di illusionismo architettonico di matrice giuliesca, con un preciso legame a un passo delle Osservazioni nella pittura di Cristoforo Sorte, prospettico e cartografo veronese, per la resa in prospettiva delle “colonne torte”. Forse è possibile identificare nell’ambiente in questione il locale per il quale Cristoforo, dovendo “fingere una logia con colonne torte e balaustri e soffitto [in Palazzo Ducale] talmente che rappresentasse un bellissimo chiostro”, ricevette decisivi suggerimenti da Giulio Romano in persona. Forse…
Quello che è certo è che nei puttini alati volanti o comunque impegnati in giochi e scherzi di vario genere sulla loggia tutto il gruppo di lavoro è concorde, nonostante i guasti evidenti nel murale che ne diminuiscono decisamente la leggibilità, nel riconoscere l’autografia di Giulio Campi. I confronti, del tutto ovvi e che non sto a elencare in questa circostanza, sono con i dipinti degli anni quarantacinquanta, il momento forse più nobile della sua produzione.
Va detto comunque che gli affreschi non sono inediti, una foto è anche a p. 385 del catalogo della mostra di Giulio Romano del 1989; ma tra Pisanello e Mantegna, Giulio Romano e Rubens, quasi nessuno si è occupato della loro attribuzione, tanto meno di un possibile riferimento a Giulio Campi. La questione, tuttavia, non è da poco nella ricostruzione dell’attività mantovana del pittore: qualche anno fa Renato Berzaghi l’ha riconosciuto negli Amori di Giove affrescati in un camerino di Palazzo Aledegatti; più di recente Stefano L’Occaso l’ha ritrovato anche nel salone dello stesso palazzo, in vari putti spudorati.
C’è poi la vicenda della pala del 15521553 con San Girolamo per il duomo: com’è noto, la sistemazione del nuovo arredo pittorico della cattedrale promosso dal cardinale Ercole Gonzaga è uno dei capitoli più significativi del rinnovamento della maniera in Valpadana, cui concorre un nutrito stuolo di artisti, primo fra tutti Paolo Veronese. Il dipinto di Giulio Campi è l’unico a essere andato disperso assai per tempo, ma la partecipazione all’impresa si qualifica come un segnale di grande considerazione per il pittore cremonese a Mantova.
La scoperta nella Rustica è la testimonianza di una commissione gonzaghesca di straordinario prestigio sinora non conosciuta né ipotizzata, verosimilmente condotta negli anni di Ercole. Nello svolgimento stilistico di Giulio Campi sono presenti diversi momenti di fascinazione mantovana, tra Giulio Romano e Primaticcio, ma la critica non si è lanciata al di là di generici riferimenti all’uno o all’altro artista, quando pure l’intero corpus campesco meriterebbe precisazioni più specifiche al riguardo, da Sant’Agata, 15371538, in poi. Va meditato invece se negli affreschi della Rustica e nella pala del duomo e nella committenza Aldegatti non sia piuttosto da leggere un tentativo di sbarco del cremonese a Mantova con intenzioni ben chiare, ovvero di diventare il pittore di corte dei Gonzaga in anni in cui manca un artista di riferimento; tranne dover fare i conti, alla fine, con Giovanni Battista Bertani.
Nei primi anni cinquanta Giulio Campi è pochissimo documentato a Cremona, mentre nel maggio 1549 registra la procura a favore di Cristoforo Sorte (suo “grandissimo amico”) per la stipula del contratto di otto quadri per la Loggia di Brescia: non credo inverosimile leggere le assenze da Cremona e il sodalizio con il prospettico veronese nell’ottica di un suo eventuale passaggio a corte.
Due bellissimi disegni del Louvre con scene di lavoro agricolo (Due seminatori e la Tosatura delle pecore) potrebbero entrare in qualche modo, ipoteticamente per ora, nella vicenda: sono i vertici “mantovani” della produzione grafica di Giulio Campi, in forte parallelo con quella del Bertani: mi chiedo se, proprio in relazione al loro soggetto, i fogli non debbano essere messi in rapporto con un progetto decorativo pensato proprio per gli ambienti della Rustica.
Il seguito di questi puttini di Mantova è a Cremona: se ne vedono nella guasta pala di Sant’Omobono del 1555 che ritrovai una dozzina di anni fa a Ca de’ Soresini, ma soprattutto nelle lesene di San Sigismondo. Le grandi inquadrature architettoniche, invece, con le possenti colonne tortili (presenti in un progetto grafico dell’Accademia Carrara di Bergamo per la Pentecoste di San Sigismondo) saranno adottate nel catino absidale di Sant’Abbondio, ultimato dal Malosso a causa della morte di Giulio, e costituiranno una sorta di patrimonio familiare dell’illusionismo prospettico campesco, come mostrano nel 1575 gli affreschi di Antonio nella sagrestia di San Pietro o l’impresa grandiosa portata a termine da Vincenzo nelle due aule, pubblica e claustrale, di San Paolo Converso a Milano.
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