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Ci segnala un cremonese specialista di marketing: "A febbraio in Sant Agata per una diecina di giorni o poco più viene esposta la Tavola. Un capolavoro sconosciuto e pressochè invisibile durante il resto dell'anno. Perchè i commercianti di zona, invece di piangersi addosso, non si danno un po' da fare? Facendosi carico di esporla e valorizzarla ,come fu per la gran Croce del Duomo ( che pure sembra già "passata di moda", negletta e manco più illuminata... ci si dia uno sguardo). Tra Sant'Agata, Santa Margherita (che il Vascello ha giustamente riportato alla evidenza che merita sottolineanto lo sforzo compiuto per il restauro) , Palazzo Trecchi, Cittanova, Palazzo Raimondi (magari, quest'ultimo senza le auto in sosta davanti), si potrebbe cominciare a valorizzare un altro pezzo di città. Certo, turismo di nicchia, ma che col tempo potrebbe portare presenze, visitatori,acquisti etc etc.....Quell'apprezzato e noto uomo di cultura che è il nostro Sindaco,non dovrebbe essere sensibile e accorto su questi temi?".
Il lettore ha perfettamente ragione. Oltre tutto il folklore che si potrebbe creare non è basato su una invenzione cervellotica come certe feste in costume che si stanno spandendo a destra e manca e che spesso sono basate sul nulla, su una semplice volontà speculativa. Qui, la storia e l'arte ci sono.
Di una Festa il 5 febbraio e di una Tavola se ne parla da tempi immemorabili, sia pure da un punto di vista devozionale. Scrive nientemeno che Antonio Campi:
Commenta Franco Voltini. "Evidentemente il Campi non era neppure sfiorato dal sospetto che quel reliquiario fosse anche un cimelio artistico; e alla stessa maniera non ne furono sfiorati gli storici successivi e i compilatori di rassegne di cose d'arte locale fino a quel 1925 in cui - si può ben dire - la tavola venne scoperta '».
Di questo avvenimento, Ugo Gualazzini, che ne fu il principale protagonista, ha amabilmente raccontato le avventurose circostanze. La tavola, come i cristalli che la proteggevano, era del tutto annerita per il depositarsi secolare del fumo delle candele; ridotta così in condizioni di totale illeggibilità, ci si può anche spiegare come si sia potuto ignorarne il significato artistico per tanti secoli.
Fu soltanto l'operazione abusiva, ma perdonabile " a posteriori ", di aprire i cristalli che la racchiudevano, a rivelare la presenza dei dipinti sulla tavola di legno e ad avviare il prezioso cimelio verso la celebrità.
Occorse un anno a Mauro Peiliccioli, restauratore - mago per definizione, perchè la tavola, pazientemente consolidata e ripulita, tornasse a vivere nella pienezza dei suoi valori. Il legno, com'è noto, è dipinto sull'una e sull'altra faccia: da una parte raffigura la Madonna con il Bambino (foto in alto e destra) e, al di sopra, in proporzioni assai più ridotte, la scena della Pentecoste; dall'altra parte racconta, distribuiti in quattro fasce, episodi della vita e del martirio di S. Agata; il bordo è costituito da un fregio che svolge sui quattro lati un motivo di piccoli archi continui, evidentemente ispirato agli archetti pensili tipici dell'architettura romanica.
La Vergine è rappresentata seduta sotto un arco a dentelli da cui pende un drappo verdognolo; rivestita di un manto azzurro cangiante che le avvolge anche il capo, tiene tra le braccia il Bambino in tunichetta rossa lumeggiata d'oro. Il tipo figurativo è ancora bizantino, come al vocabolario bizantino sono ancora attinti in gran parte i termini convenzionali del linguaggio; ma uno spirito del tutto nuovo, occidentale, supera le astrazioni auliche e carica le immagini di una ritrovata vitalità: alle prerogative liturgiche della theotocos si aggiunge il sentimento affabile della maternità compiutasi nella carne.
Appena sopra è la Pentecoste (riprodotta in prima pagina) « a dar ragione all'ipotesi critica di un autore addestrato alla pratica miniaturistica, tanta è l'umana passione che riesce a esprimersi in piccole figure stipate dentro uno spazio ridottissimo: gli undici Apostoli (manca la Vergine, che già è protagonista di questa faccia della Tavola) sono creature vive, che si muovono, gestiscono variamente e volgono il capo per cercarsi con gli sguardi e comunicarsi vicendevolmente la meraviglia per il prodigio che sentono compiersi in loro. La scena è chiusa tra due quinte architettoniche: una casetta verde a destra e una rossa a sinistra, che sembrano messe lì, con le loro note di colori contrastanti, per una dichiarata volontà di superamento d'ogni simmetrico schematismo e come richiamo di concretezza e di verità narrativa. Cose che forse l'ignoto pittore non pensava, ma che certo sentiva interiormente con un'urgenza superiore alle stesse capacità espressive; cercava di liberarsi - ha scritto il Toesca - dall'impaccio bizantino un artista incomposto e pur fortemente espressivo.., che per novità di intenzioni, sebbene involute d'inesperienza, può rammentare lo spirito che muove l'arte di Cimabue, altrimenti cólta.
E' quanto si rivela, soprattutto, nelle storie « dipinte sull'altra faccia della tavola, dove il pittore, meno condizionato da un'iconografia precostituita, compone liberamente le scene da ' pittore diretto, immediato, umorista di genio che incendia il suo racconto a una vampa perennemente fervida" (Longhi).
Apre le storie, nella prima fascia in alto, l'episodio della tentazione: Afrodisia (riproduzione a destra), dietro la quale stanno le nove figlie dissolute, cerca di persuadere Agata, a darsi al prefetto Quinzano. L'azione è nel suo pieno svolgimento: il gesto del rifiuto, senza compromessi della Santa non è meno caratterizzato drammaticamente di quello della megera che incalza minacciosa, interamente avvolta in un rosso mantello che sembra nascondere terribili insidie, torva nello sguardo e con un dito biecamente puntato contro la fanciulla. L'oro del fondo, isolando i personaggi, accentra abilmente tutta l'attenzione sui gesti, che acquistano un eloquenza espressiva di rara potenza: non ricordiamo, nella pittura coeva, altri esempi d'una così efficace sintesi narrativa all'infuori di quelli di Giotto, pur profondamente diverso per spiritualità e linguaggio formale.
Agata davanti a Quinzano, l'episodio che segue, rappresenta una pausa nel dramma. Il tiranno, seduto in trono con le gambe a cavalcioni, non pare interessato al discorso che Agata gli rivolge tenendo una mano alzata a indicare il cielo; egli pregusta già lo spettacolo della tortura cui sta per sottoporre la fanciulla; e la presenza di Afrodisia dietro la Santa, come di tre sgherri dietro il trono, è già un chiaro preannuncio di quanto sta per succedere.
La seconda fascia (nell'intero della Tavola, di fianco al secondo titolo, rivedi cliccando qui) continua il racconto con ritmo diverso ma non meno intenso. Lo spazio si allarga e le figure acquistano proporzioni e solennità iconiche: S. Pietro visita Agata in carcere. La dignità del soggetto suggestiona il pittore, che abbandona il narrare corsivo e vincola la fantasia ai modi più consueti della pittura colta nel disporre le articolazioni del panneggio, nel delineare con cura le strutture architettoniche, nel cercare, insomma, un tono di liturgica compostezza. Qualche concessione all'istinto non manca tuttavia: il fanciullo che precede S. Pietro portando il cero acceso, e si volge di scatto come per sollecitare l'Apostolo esitante, è in tutto e per tutto un chierichetto di sagrestia, degno di rappresentare la categoria al di fuori di ogni limite di tempo e di luogo; e serve poco l'aureola per farcelo credere un angelo.
Ma la libertà del racconto, per poco contenuta, ritrova tutto il suo estro negli episodi delle due fasce inferiori (qui sopra). Ne fermiamo uno che ci descrive un cataclisma: Catania è colpita dal terremoto. Le diagonali degli edifici che stanno crollando non sono espressivamente meno efficaci delle macerie a terra; ma a rendere l'idea dello sconvolgimento generale niente è più significativo del particolare di Quinzano che, sorpreso dal terremoto sul balcone del suo palazzo, è sospeso nell'aria come dentro la navicella di un aerostato. Contro il tiranno, che ha meritato il castigo della città con le sue malefatte, troppo tardi sembra inveire un gruppo di uomini sulla sinistra, mentre donne terrorizzate, a destra, si stringono l'una all'altra.
Il piacere del narrare non si esaurisce mai, come si vede, in questo pittore, così caratterizzato e tuttavia sconosciuto, che una vera misura di sè ha affidato probabilmente a questa sola opera.
Chi esso sia non sarà forse mai rivelato; ma che sia un settentrionale, veneto o emiliano o lombardo, è concordemente ammesso dalla critica, contro la leggenda che tentò di accreditare una provenienza della Tavola dalla Sicilia. "Un artista grandissimo comunque, da non scadere neppure di fronte ai maggiori toscani.., direi forse da superarli..., - ha scritto il Longhi - nella considerazione del nostro Duecento, da collocare.., sul piano della qualità suprema".
Con queste basi, vogliamo isolare la Tavola a una semplice rievocazione di parrocchia? Ci pensino tutti. Anche i commercianti di quartiere. Perché no?