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LE PIETRE LIBERATE

Suggestioni di una ricerca al digitale

Di ANTONIO LEONI

Eccomi al mio balletto con le pietre, specialmente  colpito dai volti,  a volta ironici, a volte riflessivi, metafisici, allegri o tragici, supponenti o esausti,  sicuramente pop. Mi continuano a colpire e a interrogarmi i personaggi di pietra che ci guardano con occhi penetranti e che ci interrogano, persino da secoli, di sicuro stupiti della nostra indifferenza. Noi passiamo via e vai là..

Da qui un tentativo di mettermi in contatto con questi spiriti di ogni tempo, di strapparli dal muro e di dialogare con il marmo, il cemento o qualsiasia altra cosa viva, innaturalmente silenziosa come gridò Michelangelo.

Perché hanno molto da dire: parlano con il tormento dell’artista che li ha scolpiti, ma persino meglio, oltre i limiti dell’intelligenza umana, con riflessioni proprie che derivano dalla sapienza e dell’osservazione delle migliaia, forse milioni di persone che sono passate davanti e  magari hanno gettato persino uno sguardo dal quale hanno ricavato nuovi pensieri e  lezioni morali.

Provo un’ ebbrezza di libertà  in questo processo che toglie all’immagine fotografica  la rigidità del definitivo,. Non si detta un pensiero irrevocabile non c’è più il negativo che ne faceva una lapide, mito dell’attimo irripetibile, unicum inviolabile inchiodato dai sali di argento,  la tomba definitiva dell’attimo fuggente citata da Roland Barthes.

Non c’è limite alle cose, non c’è proibizione di spazio o di materia, non c’è più neppure la proprietà dell’idea se un algoritmo può variare tutto e reinventare nuovi approfondimenti, varianti, combinazione in spazi sconfinati come sono quelli della creatività. Il bosone di Higgs insomma, applicato alla fotografia che ci mette tutti in moto verso orizzonti perpetuamente da sconvolgere e sconvolgenti.

Proprio come nella Bibbia dove Dio crea il mondo con  ragione e amore,  dal che scienziato e credente si uniscono nello stupore che unisce le due dimensioni.


(Le fotografie sono coperte da copyright ©)


Fauni

CITAZIONI

Il futuro della fotografia – Perché le immmagini rubate da Street View stanno rivoluzionando il nostro sguardo -  di Geoff Dyer  (quotidiano la Repubblica , domenica 5 agosto 2012)

“  La modalità della realizzazione della fotografia fa notizia in sé ed equivale ad una inchiesta aggiornatissima. L’arte in questa recentissima manifestazione tecnologica di campionatura visuale sta nello scontornamento, nell’editing delle foto, un intervento di modifica in grado di enfatizzare o addirittura creare un effetto di narrazione implicita, irrisolta e potenzialmente incriminante allo Blow Up



Il ribelle


Il cyber rivoluziona la fotografia – di Antonio Tursi ( settimanale L’Espresso – n.25 - Tecnologia) –

Generate da algoritmi, le immagini digitali offrono la possibilità di cambiare il medesimo oggetto, di movimentarlo e di contaminarlo, di offrirlo anche alla altrui esperienza per una infinità di sollecitazioni, di varianti, provocazioni, emozioni, riflessioni, fantasie che sgorgano dalla sensibilità di ciascuno di noi, approdando agli orizzonti infiniti della immaginazione, proponendo continue trasformazioni secondo le speranze, i desideri, le prospettive, i tempi. Queste immagini sono nuclei in esplosione che si offrono per successivi passi, pensieri, elaborazioni. Si demolisce la rigidità del fatto e finito e persino, se vogliamo, dell'individualismo, qui la sacralità della firma segna un istante della scienza. Siamo nel pieno dei regimi dinamici che sono la maggiore peculiarità della cultura senza confini espressivi”.


L'ampolla


Altri pareri

Un messaggio di speranza

Come un pittore usa il pennello, Antonio usa le tecnologie digitali. Ma prima ancora il suo spirito chiede all’occhio di scoprire all’orizzonte, piccolo e grande, dei cieli esplosi e delle crepe nel gesso, un messaggio di speranza per l’incertezza dell’uomo d’oggi.

Non certo un invito generico e sdolcinato, ma una sferzata alla necessità di “virtute e conoscenza”.

L’occhio e lo spirito insieme a costruire un vero e proprio quadro che comprende la memoria storica, i segni di espressioni artistiche sublimi ridotti a elementi pittorici e simbolici, che si presentano potentemente di fronte ad urlare la necessità di rivivere in un mondo sfondato, sfrangiato e smangiato, che si colorano di toni impossibili nell’estremo artificio che prelude quasi all’irriverente polemica televisiva quotidiana.

In paesaggi già captati nei quali il primo piano fisso e centrale si contrappone allo sfondo lontano mobile ed evanescente. E nella contrapposizione tutto sembra improvvisamente vibrare riprendendo la vita di secoli.

La ricerca sottile e pervicace del Vaso di Pandora continua.

In una fisionomica che parte dal corposo Romanico e si snoda attraverso i mostri di Bomarzo fino all’iperrealismo tedesco attuale di Rivoli, i quadri della mostra non sono più guardati come immagini fotografiche, sia pure colte e raffinate, ma come messaggi profondi, oltre l’immagine, per la complessità del messaggio.

La riproposta delle forme più colte, misteriose  e originali della impietrita  cultura cremonese continua.

Una cultura che in Antonio passa dal sostrato eclettico, con profonde radici nel luogo, e viene proiettata in modi e spazi surreali, in atmosfere simbolistiche, ove si accumulano eco lontane di esperienze formali complesse, dal naturalismo materico al nuclearismo, dall’arte povera alla pop art.

I quadri diventano schermi immobili che possiamo guardare all’infinito per metabolizzare con il nostro tempo e le nostre esperienze il senso dell’immagine a lungo meditata ed elaborata, ancora misteriosa, del volto di pietra, del paesaggio deformato, del vuoto decorativo certo ricercato ed ottenuto.

Quanto appare all’occhio superficiale è tecnologia d’avanguardia nell’applicazione delle virtù dei circuiti digitali, ma questo è solo uno strumento, come il collage di stampe di lontane origini: è solo uso di strumenti e di materiale utili a collegare i fili sottili dei sensi e della mente, ove la storia segna le memorie estetiche e spirituali, le eterne aspirazioni e speranze, ineliminabili e pur sempre frustrate, come già  sono state incise  a Lescaux.

Continua così anche la scoperta degli ultimi nella Bassa, che forse sono già spariti.

Questa breve meditazione sulla pittura di Antonio Leoni, che, come figurazione, non è facilmente avvicinabile a parole di analisi critica estetica e/o letteraria, già egregiamente espresse, ha solo il significato di voler esprimere la mia partecipazione allo sforzo di voler restituire all’immagine la concretezza e l’attualità delle pietre che finora ci hanno lasciato indifferenti.

E forse così anche Antonio ha dato un contributo a rendere la pittura meno frivola.



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alle ore 17:32:15
di Mer, 16 mar 2016



Le lapidi dei Caduti del Risorgimento e della Grande Guerra al cimitero... Memorie scolpite nel marmo

"Memorie scolpite sul marmo" è il bel titolo della mostra fotografica, curata da Alberto Bruschi, Mariella Morandi e Giuliano Regis, La mostra è l’esito finale di un impegno condiviso dall’Adafa, dal Gruppo Fotografico Cremonese BFI e dall’Opera Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra che si sono fatti carico non solo di documentare il patrimonio di lapidi legate ai caduti della Grande Guerra ma hanno provveduto al restauro di iscrizioni in via di scomparsa. Trentasette in tutto sono le epigrafi restaurate e documentate nella loro trasformazione dal lavoro dei soci del Gruppo Fotografico Cremonese Il restauro è stato realizzato da Elena Dognini, Mara Pasqui ed Annalisa Rebecchi , le fotografie dei soci del Gfc sono stampate su carta fine art museo hahneuhie. I testi che accompagnano la mostra sono curati da Mariella Morandi , trascrizione epigrafi e cenni biografici sono di Anna Filippicci Bonetti.

Le memorie risorgimentali

“Il primo bisogno dell’Italia è che si formino gli Italiani che sappiano adempiere al loro dovere” scrisse Massimo d’Azeglio all’indomani dell’Unità d’Italia nel volume I miei ricordi, pubblicato postumo nel 1867. L’invito venne accolto da tanti italiani che, sorretti dal senso del dovere, da sani principi e retta moralità si impegnarono, dopo aver partecipato in prima persona all’avventura del Risorgimento, nello svolgimento dei compiti lavorativi e nel miglioramento della società.

Le loro tombe dovevano conservare memoria di questo impegno, in quanto, secondo il pensiero illuminista affermatosi poi su larga scala nel corso dell’Ottocento, esso diventava  opportunità di incitamento alla virtù per i vivi e in particolare per i giovani. Questo pensiero portò alla creazione dei nuovi cimiteri, di cui quello di Cremona è notevole esempio, in cui le tombe, immerse in un ambiente naturale rasserenante per facilitare l’elaborazione del lutto, dovevano avere un aspetto solenne per sottolineare la sacralità della morte, ma anche per perpetuare le virtù del defunto.

A questa funzione non si sottraggono i monumenti funebri presentati in questa mostra. In essi sull’aspetto figurativo, che in molti casi è pregevole – si vedano ad esempio la tomba di Giannino Simoni Broggi, caduto a Solferino, con la statua scolpita da Silvio Monti interessante per l’accentuato realismo dell’uniforme o quella di Francesco Pozzi con una bella rappresentazione allegorica della Patria – prevale l’importanza delle epigrafi.

 Anche quando la tomba è molto semplice, come nel caso di quelle negli androni, i familiari vogliono che si faccia memoria  di quanto il loro caro ha fatto in vita. Ecco dunque che esse sono formulate come dei brevi curricula vitae in cui, al primo posto, figura l’impegno risorgimentale.

Per qualcuno esso comportò l’estremo sacrificio della vita, come fu per il già citato Giannino Simoni Broggi esponente di quei giovani intellettuali che credettero fino in fondo negli ideali risorgimentali. Per molti altri fu un’esperienza giovanile a cui seguì l’impegno della vita lavorativa e familiare Dio, Patria e Famiglia, com’è noto, furono gli ideali ispiratori della vita borghese dell’Ottocento e ad essi fanno riferimento le lapidi di questi cremonesi: “al Volturno sparse il sangue per la Patria, alla famiglia rivolse le belle doti del cuore” recita l’epigrafe di Antonio Oliva, “combatté le patrie battaglie […] marito e padre affettuoso confortato dalla religione cattolica” quella di Enrico Binda.

Sfilano, in queste epigrafi, i rappresentanti della borghesia cittadina, di quella modesta come di quella più abbiente, accomunati dallo stesso impegno ideale: “custode negli uffici della Provincia […]modesto cittadino” fu Antonio Sala che “combattendo sui campi della patria dal 1859 al 1862 fu tre volte insignito della decorazione solo concessa ai valorosi”, “pubblicista avvocato amministratore” fu Francesco Pozzi che “all’Indipendenza d’Italia dava il proprio sangue”., “commerciante e cittadino integerrimo” ma anche idealista dall’anima libera carattere franco leale” fu Giuseppe Boselli .

Attraverso queste epigrafi si ripercorrono le tappe più significative del Risorgimento, le battaglie di Custoza, di San Martino, di Palestro, del Volturno, l’esperienza della Repubblica Romana del ’48, la guerra in Crimea, la spedizione dei  Mille, come in un libro di storia, le cui pagine, però, in questo caso sono le vite della gente comune, protagonista di quella microstoria senza la quale i grandi fatti come l’Unità d’Italia non si sarebbero potuti compiere.

La Grande Guerra e l'elaborazione del lutto

E’ difficile stimare l’esatto numero dei soldati caduti sui campi di battaglia durante la prima guerra mondiale, fu una tragedia immane che colpì soprattutto la fascia di età compresa fra i 20 e i 39 anni e che comportò una duratura modificazione della struttura demografica europea, con un incremento del peso percentuale delle donne in tutti i paesi europei.

Si pose, quindi, il problema di accettare e rendere accettabile la morte di massa e di elaborare il lutto sia come dolore privato, sia come esperienza collettiva. Fu per questo che, negli anni successivi alla fine del conflitto, il dolore provocato dalla morte e dalla violenza conobbe varie forme di elaborazione, che hanno dato origine a monumenti, sia pubblici che privati, eretti alla memoria e in onore dei caduti sia nelle piazze che nei cimiteri di tutte le città  e i paesi italiani.

 Essi hanno assunto forme e dimensioni diverse, a seconda della cultura e delle possibilità economiche di chi li ha commissionati. In molti casi si è trattato di vere e proprie opere d’arte, in molti altri di  prodotti di dignitoso artigianato, tutti comunque obbediscono, nelle scelte stilistiche ed iconografiche, ad uno specifico codice linguistico, in cui confluisce un insieme figurativo e simbolico attinto dalla tradizione e finalizzato, in questo contesto, ad esprimere il mito dell’esperienza di guerra, mito elaborato alla fine del conflitto in parte spontaneamente, da reduci e volontari, in parte deliberatamente dalla propaganda politica. In esso la guerra assunse una dimensione eroica in cui i caduti sono i martiri della religione della nazione. Ne derivò un vero e proprio culto dei caduti che si espresse materialmente nei Monumenti ai caduti, nelle Tombe al Milite Ignoto, nei Cimiteri di guerra.

A Cremona il Cimitero di guerra costituisce un settore del Cimitero Civico che ha come centro il grande monumento ossario detto Lampada votiva eretto nel 1927. Qui la memoria dei soldati defunti è affidata a semplici targhe o alcune più articolate epigrafi poste all’interno del monumento stesso ed a steli un po’ più elaborate collocate all’esterno (campo L). Le steli furono realizzate a spese dei familiari dei soldati caduti, in alcuni casi più famiglie, non disponendo di mezzi sufficienti per sostenere da sole la spesa, riunirono i ricordi dei loro cari in un’unica stele.

In esse i caduti sono ricordati utilizzando, in forma decorativa e al tempo stesso memoriale, quel codice di immagini di cui si è detto sopra. In esso si intrecciano componenti figurative di varia derivazione. Le più frequenti sono i soggetti che si ricollegano ad una secolare tradizione militare e che ricordano i trofei, il cui uso, come elemento decorativo allusivo all’onore militare, va dagli archi di trionfo romani fino alla decorazione dei palazzi neoclassici: ecco allora le spade e i vessilli intrecciati a serti di alloro e di quercia simboleggianti l’onore e la forza.

La loro attualizzazione, che li lega alla recente esperienza bellica è data dall’inserimento nella composizione di elmetti, cartucciere, fucili, giberne, stellette, i segni distintivi dell’arma di appartenenza (penne per i bersaglieri, ancore per i marinai) il tutto finalizzato a presentare il soldato come l’eroe che ha sacrificato la propria vita a favore della Patria. Ad essi si affiancano gli elementi che rimandano ad una esperienza più trascendentale, la croce e la lampada votiva, simbolo di una memoria che continuerà nei secoli. In alcuni casi i simboli prendono forma umana (l’angelo della morte, la fanciulla pietosa DIOTTI , STAGNATI), in altri è rappresentato lo stesso soldato o in forma di ritratto a mezzo busto (MILANESI) e a figura intera (Rossi) o idealizzato secondo un ideale di bellezza classica che lo mostra nudo e virile come una statua ellenica (PELLEGRI). Su tutte troneggia, non solo per le dimensioni monumentali, la figura dell’Italia, incisa con tratto secessionista da Francesco Riccardo Monti sulla tomba di Lavinio Zanacchi. 

Gli stessi elementi compositivi si riscontrano nei monumenti funebri che si trovano fuori dal settore dedicato ai caduti, dove le maggiori disponibilità economiche dei committenti hanno consentito esiti che sono in genere qualitativamente più alti, come la madre del soldato, di forte impronta espressionista scolpita da Francesco Riccardo Monti(ZELIANI).

Varie sono le componenti stilistiche che connotano questi monumenti funebri, segno di come le correnti artistiche che si intrecciano nel primo quarto del XX secolo permeassero non solo le scelte degli artisti di maggiore levatura ma anche gli artigiani ed i loro committenti. Nelle opere qui esposte si colgono infatti tratti di realismo tardoromantico, di guizzante florealismo di ispirazione liberty, ma anche accentuazioni espressioniste ed i presupposti di quel nuovo classicismo che negli anni seguenti avrebbe costituito la cifra stilistica dei totalitarismi europei.

Componente essenziale di ogni monumento è, inoltre, l’epigrafe dedicatoria, che nelle tombe a forno degli androni accompagna la foto del defunto inquadrata spesso da semplici cornici decorative. A queste iscrizioni è affidato il compito di illustrare, oltre ai dati anagrafici del caduto, il luogo e la causa della morte, il suo eroismo ed il mondo di affetti che si stringe attorno alla sua memoria per perpetuarla.

Sono frasi semplici, che esprimono in maniera molto composta lo strazio di genitori, giovani spose, figli piccoli rimasti orfani, tragedie che cercano consolazione e una sorta di compensazione nel presentare il caduto come un eroe, probabilmente oscuro ma ammirevole per il semplice fatto di aver compiuto il proprio dovere fino in fondo, anche quando ad averlo rapito alla vita non è stata una fucilata o una scheggia di proiettile ma una malattia contratta per gli stenti e la promiscuità della permanenza in trincea.

Nel pensiero di chi legge oggi queste epigrafi - a un secolo di distanza - scompare così per un momento ogni altra considerazione storica, non si pensa alle iniquità nascoste dietro questa guerra, alle promesse fatte ai soldati e poi non mantenute a guerra finita, ai tanti episodi nei quali questi giovani uomini furono solo “carne da cannone”, ma si ammira lo slancio ideale di coloro che partirono volontari, sia che ad attrarli fosse stato l’amor di patria o l’estetica del bel gesto, si condivide il dolore di chi si vide strappare più di un figlio, lo strazio di madri e di padri che videro partire e svanire nel nulla i propri ragazzi, senza avere nemmeno la pur magra consolazione di poter dare pietosa sepoltura ai loro resti. Da qui il dovere di conservare queste testimonianze, documenti di umanità e di storia e di trasmetterle nella loro ricca semplicità alle nuove generazioni. Da qui il senso di questa mostra.