Dal vivo ... splendido incontro con il più grande liutaio della storiaAntonio Stradivari svela il segreto del “MESSIA”Intervista impossibile (ma plausibile) al principe delle liuteria cremonese
In a word, this violin is a type of external beauty and sonorous perfection (F.J.Fetis) di Vittorio Dotti Siglata da questi e da altri non meno entusiastici giudizi, la fama del “Messia” 1716 di Antonio Stradivari crebbe a dismisura da quando, nel 1939, il suo legno rémarquable par la richesse de ses ondes (Vuillaume) e le qualities of power, mellowness, roundness, delicacy, freedom with a penetrating tone (Fetis) del suo suono furono rinchiusi in una teca di cristallo, e segregate a Oxford nell'Ashmolean Museum. Siccome noi siam poco amanti dei miti, sui violini, come sugl'uomini, vogliamo conoscere, fin dove possibile, le storie vere. E al fine di cercare la «forma interna» e umana del “Messia”, usando un metodo d'indagine paradossale e avendo come modello letterario le Interviste impossibili di Giorgio Manganelli, abbiamo chiesto ad Antonio Stradivari di svelarci il suo segreto. Non senza esserci documentati, però, attraverso la consultazione di: W.E. Hill & Sons, The Salabue Stradivari, London 1981; S. F. Sacconi, I “Segreti” di Stradivari, 1972; C. Beer, Capolavori di Antonio Stradivari, 1987; E. Santoro, Antonius Stradivarius, 1987. Svolta questa premessa, procediamo. Lasciamo che sia il Maestro a scegliere il luogo dell'abboccamento, ma prevedevamo che non sarebbe potuto essere altrimenti che quello: il cippo in Piazza Roma, ubicato nel punto ove sorgeva la Cappella del Rosario, tomba della famiglia Stradivari, in cui Antonius fu tumulato nel gelido dicembre 1737. Intorno alla Cappella sorgeva la Chiesa romanica di San Domenico, e in un modesto alloggio quasi in fronte ad essa viveva e lavorava, coadiuvato da una schiera d'allievi, il principe dei liutai. E' un'uggiosa mattinata ottobrina, quando il Maestro apre e c'introduce nella sua bottega. Lasciamo fuori il mondo e le sue ambasce, per penetrare, sia pur per pochi istanti, nel regno sonoro e luminoso dell'artigianato spirituale. Stradivari introduce la sua confessione mostrandoci un fascicoletto autografo, sulla cui copertina si legge: «lo violino et sua fabbricatione siccome li segreti et li studi fatti per lo mio conto et qui scritti nell'anno di + 1715 in Cremona». Illustrando le sue parole con grafici, formule del suono, misure in once delle tavole e in gradi di concavità interna delle casse armoniche, il grande liutaio rivive il travaglio di studi e di sperimentazione, che all'inizio del XVIII secolo lo aveva portato a “modificare ed acusticamente migliorare la mia fabbricatione, onde soddisfare le esigentie tecniche de' virtuosi sonatori”. Queste ricerche lo portarono a modificare il criterio costruttivo, la forma e l'espressione artistica esterna degli strumenti progettati seguendo le regole del suo insigne maestro, Nicolò Amati; del quale è sommo lascito l'“Hammerle” 1658, custodito nello scrigno dei tesori del cremonese Museo del Violino. Antonio aveva ammirato e imitato questi strumenti, come comprova, ad esempio, lo splendido stradivario donato al mondo nel 1685, poi appartenuto al Marchese Spinola. Ma Antonio Stradivari era un genio creativo, non un emulatore soltanto; e nei primi anni del '700 ideò una variante, nella quale “la cassa armonica diminuisce ne la sua longhezza, mentre quella de le tavole stabilii in once 6 (pari a 355,68 mm. - n.d.r.)”. In questo modo, la tavola armonica e il fondo non conservano più un uguale raggio di curvatura interna, e quindi “diventano indipendenti l'una da lo altro”. Per conseguenza si ottiene che “il foco principale di curvatura de la tavola di fondo cade al di là del piano armonico, sempre però su lo asse, e così tutte le riflessioni sonore vengono a concorrere nel foco principale”. Diminuendo la curvatura del fondo e spostando in questo modo il foco su un asse situato oltre il piano armonico, si aumenta il movimento vibratorio delle tavole e dell'aria interna della cassa, finché “la materia legno canta con voce viva et arguta et rovente, a cagione di tutti li incrociamenti e ripercotimenti fra le due tavole e nell'aria”. Il Maestro ci ha sin qui spiegato i “segreti” tecnici della variante di violino da lui introdotta (comunemente detta «modello piatto», forse tardivamente ispirata alla forma «Grand Amati» del suo maestro Nicolò). Questa variante è la base dell'eminenza sonora e timbrica degli strumenti plasmati dalla mani di Stradivari dall'anno 1700 fino alla sua morte; tuttavia il Maestro non ci ha ancora rivelato ciò che aveva promesso. La posta in gioco è tanto alta, che non mi perito di ricorrere a strategie machiavelliche: sapendolo sensibile ai conforti di Bacco, invito Antonius alla Bisca delle Rose, ove gli offro un gotto di buon rosso. E qui il Maestro canta, oh se canta! Prima, è vero, tenta ancora di tergiversare, parlandoci dei legnami (“l'oppio nativo; l'abete di Picea, tagliato di quarto e di densità media; l'acero Campestris del fondo, con belle ondeggiature, a volte è in un sol pezzo, a volte in due”) e evocando l'aura alchemica dei componenti le vernici (“copale, dragante, allume di rocca, gomma mirra ed Elemì, sangue di drago, sandracca e colofonia”). Ma al fine non c'incanta; altri due gotti, ed Antonius, con l'animo commosso, discopre il segreto del Messia. Correva l'autunno del 1716, ed io stavo allora per compiere 72 anni. Antonia Maria, la mia seconda sposa, mi aveva generato cinque figli, ma con lei non ero riuscito a rivivere l'emozione struggente che con Francesca mi aveva allietato il cuore. E' per questo, forse, che anche in tarda età ero ancora attratto dal fascino muliebre; e senza intenti sordidi, ma con nitore d'animo, mi ero innamorato di Annina, la giovine lattaia che ogni giorno, recandomi a messa, incontravo sul sagrato di San Domenico. Annina era un fulgore d'incanto, neri occhi lucenti sotto capelli di seta corvina, Annina era spigliata e fluente, ma il suo sguardo si velava di mestizia ogniqualvolta un musico, toccando il liuto la mandola un'arpa o una ghironda, le ricordava che non poteva udire: sordomuta era Annina. Io invece, che potevo ascoltare, ogni sera, dopo il lavoro, co' miei figliuoli mi dilettavo a sonare le partiture del Merula, finché un giorno un cliente sassone mi aprì l'universo sonoro di Pachelbel, Buxtehude, Henry Purcell, Georg Philipp Telemann; un mondo che si aggiunse a quello appena scoperto dei grandi veneziani: Tomaso Albinoni e Antonio Vivaldi. Sonavo e ascoltavo le composizioni di questi autori, sempre più affascinato dalla variegatura dei timbri, dall'intensità dei colori e dall'afflato sensuale della loro musica anche di quella ritenuta «sacra». E sempre pensavo ad Annina, col cuore afflitto dal tormento che lei questa gioia non la poteva sentire. Una domenica, verso metà novembre, in San Domenico ci fu un'esecuzione, dove suonarono alcuni Concerti per Oboe e Archi di Albinoni, il Concerto per Violino “L'amoroso” di Vivaldi, e infine il Concerto in re min. «con viola d'amor e leuto e con tutti gl'istromenti sordini» - come figura scritto nella partitura vergata dal Prete rosso. Fu durante il Largo sospiroso di questo concerto, che io ebbi l'intuizione di come nessun instrumento sonoro potesse far vivere ad Annina il lirico turbamento della musica, mentre ci sarebbe riuscito un violino atto ad emettere luce. Luce e, con essa, colori: suoni capaci di penetrare nelle vispe pupille di lei. Corsi in bottega con l'animo a fior di pelle, e non so da quale benevole negromante ispirato, presi il violino che stavo allora costruendo e d'istinto gli scostai l'anima dalla linea di gravità del piano armonico, invertendo l'asse longitudinale del foco da destra verso sinistra, come se lo violino avess'esso un cuore pulsante e colmo d'affetto, come l'avevo io. Imbracciai quindi l'istrumento, sfiorai le corde con l'archetto, ed ecco... il legno suonò luce, e la bottega ormai oscura si tinteggiò con la voce soave del Messia, che trepida e desiosa confessava agl'occhi di Annina: «Ho 50 anni più di te, ma egualmente ti amo. Non posso condurti in riva al fiume per farti ascoltare il suono delle sfere, ma con questo mio magico violino ti dono la gioia di VEDERE LA MUSICA ». Le foto © che corrredano questo servizio sono dell'autore: esprimono il concetto: "Il legno suonò luce".
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