Fatti e memorie non solo locali



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Una gastronomia e una storia vescovatina

La besumèera, un piatto perduto nel tempo che nessuno ricorda più

Inutile cercarlo nell'appiattimento dei menù odierni livellati dal benessere.
Piallando la miseria, quanta nostalgia abbiamo persa nei trucioli!

di Lilluccio Bartoli

Del piatto s'è persa la memoria rimanendone solo una traccia a Vescovato (Cr) fondata dai romani col nome primigenio di Vicus Decius, paese di giradùur (ambulanti) che mercanteggiavano pellame per le concerie tanto da essere soprannominati come vescuàdin màjacarugni: vescovatini mangiacarogne. La cosa è dovuta al fatto che raccogliendo pelli di animali appena scuoiati vengono così canzonati dai paesi vicini che a loro volta vengono contraccambiati con colorati epiteti alcuni dei quali riferibili, altri meno.

Per la cronaca anche i paesi limitrofi hanno la loro nomea: Fasulòon, quelli di Pescarolo, per l'attitudine al consumo di detto legume e non perché portati ad una facile creduloneria; dòramelòon a Cappella de' Picenardi per una burla dovuta ad una processione dove ignari si trovarono ad adorare un melone, pur non essendo la cucurbitacea ancora assurta alla beatificazione celeste; scànacrist a Cicognolo, per la scarsa propensione a varcare il soglio ecclesiale e ranèer, affibbiato, anzi anfibbiato, agli abitanti di Grontardo, per la comprovata dimestichezza ad ammanire i batraci.
Coloritissimi i soprannomi dei vescuàdìin, solo per citarne alcuni: Màjanùus, Pàan e oof, Càcanigra, Pànsa Rùzèna, ovvero Mangianoci, Pane e uovo (dall'abitudine alimentare dei soggetti) Caccanera, ad un certo punto attualizzato -anglicizzandolo- in Stercoblack (c'entra anche qui l'alimentazione, ma non è il caso di soffermarvisi) Pancia Ruggine, forse per la prerogativa d'avere uno stomaco di ferro?

Fatto storico, avvenuto a Ca' de' Stefani -ora inglobato in Vescovato e ai suoi abitanti le palle ancor gli girano- che sfido i vescovatini a conoscere; riporto pari pari dal libro "Descrizione dello stato fisico politico statistico storico biografico della provincia e diocesi di Cremona." di Grandi Sac. Angiolo. "Avvenne nel 1527 pur quivi orribile e miserando caso. Un certo uomo essendo d'assai molestato da un empio soldato, ospitante nella di lui casa, che persisteva in volere delle carni da mangiare, aspramente minacciandolo e fieramente percuotendolo perché non ne aveva, e nemmeno denaro per provedergliele, uccise per l'immane milite una sua figlia d'anni dodici ed un fratellino di questa d'anni otto e avendo le loro carni gliele presentò per il fiero pasto. Inorridito in un subito per un si atroce e barbaro misfatto, e più non potendo resistere alla foga del dolore che l'opprimeva, corse da forsennato a sommergersi nel fiume Oglio. Se sussiste verità di codesto fatto, riferito anche dal Cavitelli storico cremonese, è da pareggiarsi alle barbarie dei Druidi e degli antropofagi dell'interno dell'Africa e delle isole selvagge."
Don Angiolo Grandi nel suo libro del 1856 diceva anche degli abitanti di Vescovato: "…attendono, la più parte, al traffico sì delle nostrali che estere merci; ed in ciò sono così svegliati ed avveduti che per tale loro particolarità non si andrà errato l’asserire esser eglino distinti in fra tutti i cremonesi. Tutti negoziano; nulla manca perciò al borgo di quanto occorre al vitto, al bisogno comune ed anche al lusso".

Nei primi decenni del ‘900 il vescovatino assunse una sua caratteristica particolare, diffondendo il suo "marchio" anche in contrade lontane. Fornito di robusta bicicletta con doppio portapacchi e di bilancia, di parlantina sciolta e dialettica efficace (Vescovato era detto "el paèes de la rezòon" ovvero paese della ragione) batteva tutti i paesi del cremonese e delle province limitrofe, spingendosi anche nel Veneto e nel Piemonte.
Oggetto del suo commercio era la raccolta di tutti quei materiali che adesso vanno ad intasare le discariche. Il grido del giradùur li elencava condendoli con lazzi e riferimenti maliziosi.
"Cavéi, stràs, òs, còorda rùta, cavedéla, sìira, fùunt de bùta, bavéla, fèr rùt e pej de gàt, falòpi e dùni broti per nigùta". (Gino Olzi).

Traduzione in circamenoquasi lingua italica: "Capelli, stracci, corde rotte, fondi di botte, ferri vecchi e rotti, donne brutte... per niente." I
Su Vescovato ho ritrovato anche questo, ma non ricordo dove e di certo non l'avevo perso io: Il territorio di Vescovato, non era considerato "cremonese", ma una enclave mantovana, essendo feudo imperiale affidato ai Gonzaga, e come tale godeva di particolare ed autonomo regime amministrativo soggetto direttamente all’autorità imperiale.

L’attività delle filande ebbe un periodo di grande prosperità attorno agli anni Venti e Trenta del XX secolo, quando impegnava in lavorazioni stagionali un migliaio di persone, soprattutto donne. E’ in quegli anni che la prosperità economica favorisce lo sviluppo edilizio del paese (nel gonfalone comunale rappresentate da tre bozzoli, unitamente al bastone pastorale vescovile) con la creazione di un nuovo accesso rettilineo in uscita da Ca' de' Stefani verso Montanara e la SS 10. L’attività più tipica del luogo, quella che definisce per autonomasia i Vescuadin, era quella del piccolo commerciante girovago, il giradùur. Sempre in giro con la tipica bicicletta attrezzata di capienti ceste, egli raccoglieva varie mercanzie: una sorta di raccolta differenziata porta a porta in cambio di pere cotte e pezzi di sapone, finalizzata al recupero e riciclaggio dei materiali più umili: dagli stracci alle piume, metalli, vetro e carta, pelli, ossa e scarti di macelleria, setole e rottami che alimentavano piccoli laboratori artigianali per la produzione di spazzole, pennelli, sapone, pelli conciate, dolciumi che ritroviamo ormai ovunque sulle bancarelle delle sagre paesane.

La contrada ov'era la maggior concentrazione di tale graveolente mercanzia, ancor'oggi è nomata, con guascona ironia, Bèlaria, bella aria, non male nel paese dei màjacarugni. Il medesimo afrore lo si può cogliere anche sulla strada per Bagnarolo, quando si arriva alla Bùdèlèera (edificio ove lavorano budella per futuri salami, anche se a casa mia i salami non hanno un futuro) un apposito segnale olfattivo avvisa dell'arrivo nella località che potrebbe contendere il primato mefitico della contrada Bèlaria.

Conosciuti a Vescovato sono alcuni elementi con scarsissima propensione al lavoro ma con spiccata simpatia alla gradevole e confortante presenza di palanche nelle proprie tasche, traslate colà e artisticamente separate dai legittimi proprietari divenuti, contro la loro volontà, ex proprietari. Avvenne così che una impresa che si chiamava Maialino rosa improvvisamente dovette cambiare il nome in Maialino al verde, che un sottrattore di altrui cose preferì per anni dimorare alle isole Tonga per non essere sfastidiato dalla benemerita e che un suo compare trasbordò un congruo carico di pneumatici prendendoli in prestito perpetuo senza recare il disturbo di avvisare la ditta legittimamente detentrice, acquisendo così il titolo di Conte Firestone. Da vescovatini sapevano come pelare le proprie vittime, esattamente la stessa operazione che bisogna compiere -pelando la pelle- per avere la materia prima della besumèera.


Ecco così che estrinsecando "pelli, ossa e scarti di macelleria" si arriva all'approvvigionamento necessario per la besumèera. Un piatto di tale povertà ha non poche affinità con la "cioncia" anch'esso derivato dal quinto quarto, ovvero gli scarti della macellazione e che si preparava a Lucca; altrove -nell'aretino e nel senese- assume il nome di grifi. Una trattoria, il nome è un programma "Da Giulio in pelleria" a Lucca, guarda caso in via delle Conce, la serviva fino a qualche anno fa. Piatto di poco conto (vale una cioncia è il modo di dire) ma era l'unico che portava in tavola la carne quando questa era altrimenti introvabile dato il divieto di circolazione del benessere imposto solo per i villici.

Il fabbro (Bigiu èl frèer: Luigi il ferraio alias fabbro, di cognome Cottarelli, defunto nel 1975 nella sua bottega dove mai era arrivata la corrente elettrica) che me ne ha rivelato l'esistenza, mi diceva che la mangiavano nel "turgòol" cosa avvolta nel più fitto dei misteri.
Spiegazione sulla deontologia del fabbro: fabbro, mestiere che conobbe epoche gloriose ai tempi dei crociati, quando i legittimi proprietari delle chiavi d'accesso alle grazie muliebri -prudentemente munite di cintura di castità- non facevano un frequente o felice ritorno perché imprudentemente incappati in qualche infedele scimitarra moresca. Il prosperare dei vari cognomi Fabbri, Ferrari, in Italy; Le Febvre (per la cronaca, in dialetto locale, fabbro, si dice frèer) en France; Schmith, Schmidt, in Anglosassonia, sono lì a testimoniare l'arrovellarsi per rendere cornuti i guerrieri della terra santa, da parte di combattenti impegnatissimi -su fronti intersecatori assai più prosaici- in battaglie che usualmente hanno entrombi i contendenti, vincitori.

La sua bottega (siamo tornati al fabbro) distava soli 50 metri da un vecchio macello e forse è per questo che ne era rimasto l'ultimo depositario. Quanti a Vescovato sanno che lì si trova una cappelletta con resti ossei, non certo spolpati per la besumèera? Quando Bigiu mi disse che sua nonna (la madre non aveva mai fatto la besumèera perchè le ricordava la fame più nera) la profumava con la menta, rimasi stupìto dato che, essendo quest'erba assolutamente estranea alla tradizione locale, mai l'avevo trovata tra gli ingredienti dei piatti indigeni. Mi chiese di seguirlo, 50 metri e dietro l'angolo del macello mi mostrò un ferace cespuglio di menta il cui afrore, smuovendone le foglie, ancora ricordo. Ciàpa e pòrta a ca'.
Non mi sono scordato del turgòol, l'avevo lasciato in stand by. Dirimerne il busillis ci si può solo provare trovando assonanze col truogolo, ma più verosimilmente -di ipotesi si tratta- di torcolo alias "tòrc" che Angelo Peri, nel suo vocabolario datato 1847, parla di "macchina di più guise per istringere comprimere spremere" come se quel "turgòol" servisse a togliere più grasso possibile data la preziosità del medesimo.

Nota al lettore che si pone qualche domanda e al quale pongo io qualche domanda: tra le domande che si possono fare o parole dalle quali desumere ipotesi etimologiche o quant'altro, vi potrebbero figurare quello che ti piazzo -caro lettore- qui sotto e sono tutti termini dialettali assolutamente veri, tranne la besumèera (inesistente su tutti i testi da me consultati e nessuno ne sa niente nemmeno a Vèscuàat, tranne il qui scrivente e il de cuius di cui sopra ma ora sotto(terra) scritta nelle varie forme besumèera besumèra, besumera.

Besumèera: Solo ipotesi al riguardo delle origini del nome. Ipotizzabile da unt besùunt ovvero molto grasso e cioè lo scarto maggiore della bestia macellata che in epoche dove il benessere aveva parecchi limiti all'accezione dei più (e anche di qualche meno). Era pur sempre un notevole apporto calorico in periodi in cui il contado era così povero da non potersi permettere nemmeno l'alito caldo e men che meno problemi di linea. I seguenti sono tutti aggettivi attinenti, riportati tali e quali dai vari dizionari cremonese-italiano. Tu dimmi se con simili approfondite ricerche la besumèera non ha tutti i diritti di fare il suo trionfale ingresso (ingrasso starebbe meglio) nel gotha dei piatti perduti. Chi avrebbe mai detto che nel palinsesto delle golosità, un fabbro, avrebbe messo in onda -e in chiaro- la besumèera?
Besuntàa: Ungere con olio o grasso
Besuntamèent: Impiastricciamento di unto
Besuntèen: Chi si sfrittella, ma anche sinonimo di sudicione
Besuntèeri: Untume
Besas: Cosa di poco conto, come cioncia
Repetita iuvant: la besumèera (besumèra, besumera) veniva servita nel turgòol piatto o pignatta ma che nel nome ha parecchia affinità con truogolo, la mangiatoia del maiale, cosa che sottolineerebbe la natura poverissima di questo piatto dimenticato e sopravvissuto solo a Vescovato, paese di grandi singolarità culinarie e storiche dato che è stato per anni un territorio enclave dei Gonzaga completamente circondato dal cremonese pur non facendone parte.

Questa singolarità, aumentata da parecchi ebrei voluti dai Gonzaga perché esperti nel commercio (l'enclave era zona tax free) ha fatto si che ancora oggi si preparino piatti sconosciuti solo un chilometro più in là, come i benedèt, pane dolce azzimo -chiarissima la derivazione ebrea- si fanno una volta l'anno, a gennaio, venivano portati sul sagrato ad essere benedetti, il fornaio Giulio Bonisoli li faceva anche per gli animali ai quali toccava questo dessert ai primi di gennaio.

Ora non si danno più agli animali, ma parecchi bipedi se ne approvvigionano alla forneria che era di Loris Lugarini, sotto i gonzagheschi portici, forno depositario della ricetta unitamente a quello della chissola, un pane al burro di suadente morbidezza che ancora oggi sforna quotidianamente ma che non arriva a sentire le campane di mezzodì perché va a ruba molto prima. Altro piatto solamente vescovatino è la rustisàada che con la rustisciàda lombarda ha in comune solo il nome in quanto non parte da frattaglie da quinto quarto ma tra gli ingredienti figurano carne trita (un tempo di cavallo), piselli, il tutto ammanito in un puccino (intingolo) col quale accompagnare la polenta nel suo breve viaggio verso sud affinché non avvenga in tanta e desolante solitudine.

Prodotto unico, come la turta dè nimàal sanguinaccio (non insaccato) targato Cr, fatto col sangue non si sa di quale gruppo.Con lo stesso ingrediente ematico da versare copiosamente nella dichiarazione dei redditi, altrove ne fanno un dolce, il migliaccio, da cui il nome -torta- che comunque a Cremona torta non lo è affatto, ma da questo ne ha mutuato il nome.

La turta dè nimàal comunque non la fa più nessuno e presso il suo santo protettore, San Guisuga, da tempo non è invocato se non dagli agenti dell'Agenzia delle entrate, perché mai la Slow food non ne abbraccia la causa, intercedendo? O -idem- i ceci al miele- dimenticato da tutti come le costiole -costine insaccate, un salume di costine con l'osso- di Pontremoli che solo a Ca' del lupo e solo un contadino si ricordava e che Alessio Lombardi ha salvato dall'oblìo? Bisogna saper scovare questi tesori nascosti, la Slow Food a Ca' del lupo ha tenuto corsi per la cottura nei testi, aveva sotto il naso questa introvabilità ma l'albagìa di chi crede di conoscere tutto non ha permesso di far uscire alla luce le costiole.
Personalmente questa maieutica so esercitarla accarezzando la memoria delle persone, mostrando loro la mia autentica passione -vero amore e non interesse a intermittenza- verso quel vivere d'un tempo ammantato ancora dalla fierezza della povertà che queste reliquie celano e che vanno salvate prendendole per i capelli, mentre stanno annegando nell'oblìo, dopo aver nuotato per secoli nel vastissimo mare della miseria più nera, toccando tutti i porti della fame che ognuno aveva e nessuno voleva.



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di Dom, 31 gen 2016