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La situazione attuale del pugilato italiano

A cura di Gualtiero Becchetti

E’ dura, durissima per tutti; specialmente per chi non ha mai vinto niente di memorabile infilare la chiave nella porta della palestra e aprirla. E non un solo giorno…
Sempre!
Con il peso della vita sulle spalle: il lavoro, la famiglia, i problemi d’arrivare a fine mese. Poi scaricare questo molesto sacco all’ingresso ed entrare sforzandosi d’esibire il consueto volto più o meno sereno. Dimenticare ogni cosa. Sorridere ad uno, urlare ad un altro, incoraggiare un altro ancora. Domandarsi se qualcuno di quei ragazzi ancora imberbi e con i brufoli sul viso avrà davvero un futuro tra le sedici corde; chiedersi se uno di quei ragazzi riuscirà mai a ripagarti, almeno moralmente, di anni e anni di quotidiano impegno, rubando tempo a tutto il resto.
Ci vuole passione immensa per allenare; ancora di più quando non si ha la fortuna o l’abilità di trovarsi tra le mani il puledro di razza.
Tutti gli sport sono fatti così.
Tenuti in piedi da un esercito di volontari i quali, attraverso le fatiche e i le sfide dei loro pupilli, vivono e rivivono la giovinezza e molto spesso anche ciò che essi non hanno saputo, potuto o voluto fare.
Chi ha il sedere adagiato sulla poltrona finge d’ignorare ciò per “non pagare dazio”, ma centinaia di migliaia d’adolescenti non si buttano via solo perché c’é gente senza nome, senza faccia e senza denaro che li sospinge nella scalata verso l’età adulta aiutandoli a crescere, talvolta persino in sostituzione della famiglia e della scuola, quando queste due istituzioni da sole non ce la fanno.
Un immenso esercito di volontari che vive nell’ombra della trincea senza abbandonarla quasi mai, in stridente contrasto con chi alla trincea preferisce ambienti più ameni e si ricorda dei “soldatini” soltanto alla vigilia delle elezioni o quando, “una volta ogni morte di Papa”, essi osano esprimere un’idea, presentare una richiesta, chiedere una spiegazione. Quasi sempre inutilmente.
Il pugilato italiano sta attraversando da lungo tempo il deserto e all’orizzonte non spuntano oasi. Solo chi lo guarda da un Boeing a 10.000 metri d’altezza può avere la faccia di bronzo d’affermare che le cose vanno benone…
Chiedetelo ai pugili; chiedete a loro come stanno, come vivono, quanto faticano, invece di dirvi le cose tra voi, in una sorta di grottesca masturbazione intellettuale!
Ma nonostante ciò, non sarebbe né giusto né realistico beatificare tutti. No. Non si possono beatificare tutti perché purtroppo non mancano coloro che per una medaglietta di cartone, per una pizza alla “Bella Napoli”, per una promessa fasulla come un’antica moneta greca sono disposti a tutto, anche a vendere metaforicamente l’anima al diavolo.
Sparlare dei colleghi assenti e ricoprirli d’affetto simulato quando sono presenti; spacciare da debuttante il combattente di altre discipline o chi è arrivato da remoti ring stranieri, senza pensare agli occhi mansueti del ragazzino alle prime armi esposto al “macello”; mentire ad amici di una vita intera per trarre un minimo vantaggio alla mensa dei potenti; garantire pugili per una riunione e farli scomparire alla vigilia, incuranti delle fibrillazioni in cui si lascia una società; giochicchiare sul peso e sul valore degli atleti per fare abboccare il credulone di turno; leccare e rileccare qualsiasi cosa pur di strappare l’accesso di un proprio atleta a qualche inutile raduno, che al 90% non avrà seguito…Persino pagare di tasca propria (talvolta all’insaputa della moglie), l’iscrizione di un pugilino ad un torneo in qualche angolo d’Italia!
Sono realtà che tutti coloro i quali masticano quotidianamente la boxe “vera” conoscono bene. Ma sono anche la testimonianza di un’ottusa cecità o di un bieco egoismo.
E’ infatti così, esattamente così, che il pugilato italiano si castra con le sue stesse mani.
“Divide et impera”, dicevano gli antichi…
Vittime, quei poveretti che vivacchiano con il fiato corto in un ambiente senza porte né finestre sul domani e per primi i pugili, protagonisti spesso considerati non più delle figurine che i bimbi si scambiavano un tempo nel cortile della scuola.
Chi dovrebbe fare il bene della boxe gode invece della guerra tra sudditi intenti a rubarsi reciprocamente la miseria e le cui sole armi sarebbero invece l’unità, la lealtà reciproca, l’orgoglio d’appartenenza alla Nobile Arte, un compatto schieramento a “falange macedone” nel quale basterebbero gli scudi e la lance in perfetto ordine e la sintonia degli spiriti per ottenere il rispetto di chiunque, senza neppure bisogno d’usarle…
Non ha ormai tantissime opportunità la boxe italiana per rivendicare considerazione e speranza.
Servirebbe un “rinascimento” culturale, morale, intellettuale. Una seconda "venuta alla luce". Magari anche costellata di ingenuità ed inesperienza, di errori ed illusioni, ma salubre, trasparente e pulita. Una ventata frizzante all’interno di una stanza semibuia e con l’aria “viziata”.
Una strada non facile, né breve. Ma l’unica.
La scorciatoia è soltanto quella già percorsa e ripercorsa per anni (non da tantissimi forse, ma neppure da pochi), di vendere appunto l’anima al diavolo per assicurarsi altri cinque minuti di sopravvivenza.
Però questo non è mai stato, non é e non sarà mai un grande affare.
Forse domani e solo domani ci s’illuderà infatti di stare un po’ meglio di oggi, ma a partire da dopodomani si dovrà poi fare i conti con un futuro che più oscuro non potrebbe essere.
Inoltre, caso mai qualcuno non se ne fosse accorto, il pugilato verde-bianco-rosso non ha più a disposizione l’eternità…
Neanche quella dell’inferno.

Storie di boxe: Malaika e la boxe pronti ad aiutare i bambini di Cuba

A cura di Dario Torromeo

Malaika per me è sempre stato il titolo di una canzone di Miriam Makeba.

Un testo bello e triste, accompagnato da una melodia struggente. Il racconto di un amore povero, di una grande e tormentata passione. Nei giorni scorsi ho sentito di nuovo quella parola che in swahili significa angelo, ma a volte può anche significare ragazzino. A pronunciarla è stato un signore con uno spiccato accento emiliano. Un ragazzo degli anni Sessanta.Lui è Samuel Sammy Fabbri e Malaika Aiuti per i Bambini è l’associazione che presiede.

Assieme a un gruppo di amici Samuel lotta contro il turismo sessuale a Cuba, la povertà africana, la mancanza di medicinali in ogni zona povera del mondo. Da qualche tempo si sono messi in testa un’idea che a prima vista può sembrare folle, se sei ottimista puoi chiamarla ambiziosa, di sicuro mi piace definirla eccitante. Si chiama Progetto Cuba Boxeo.

Portare il pugilato a Cuba è come pretendere di vendere ghiaccio agli eschimési. Ma se interpreti il concetto di sport come aiuto per chi rischia ogni giorno di perdersi sulla cattiva strada, allora le cose cambiano. Da quelle parti molti ragazzini e ragazzine hanno sperimentato sulla loro pelle che se non ti fai tante domande puoi guadagnare in una sola giornata molto di più di quanto i padri portino a casa dopo un mese di lavoro massacrante. L’obiettivo che Malaika si è prefisso è quello di far capire che alla fine di quel percorso c’è solo il buio, spesso la tragedia.

Samuel e i suoi amici (Roberto Celi, Daniel Gombia, Roberta Paolini, Alexander Limonta, Vanessa Celi e il presidente onorario Eusebio Leal) hanno scelto la boxe come mezzo per aiutare quei bambini a interpretare meglio la vita. A qualcuno è sembrato strano che un’associazione umanitaria scegliesse il pugilato come ancora di salvezza. È sembrato strano a chi non conosce a fondo questo sport. “La boxe non è solo, come dice la mia mamma, due che si picchiano” mi racconta sorridendo Samuel. Col tempo in tanti hanno capito il concetto. Il primo ostacolo è stato quello di ottenere il riconoscimento dall’INDER (Istituto Nacional de deportes, educatiòn fisica y recraciòn). Il passato di Malaika come associazione umanitaria impegnata nel mondo attraverso la donazione di materiale sanitario, arti artificiali, medicine, articoli sportivi e musicali in Paesi con problemi diversi ha dato al gruppo un peso sociale importante. Sufficiente per convincire il governo cubano.

Il ring è stato piazzato all’interno di un gruppo di palazzi cadenti e malandati tra calle San José e calle Aguila/Amistad, nel barrio Colòn all’Havana vecchia. Nel centro storico, in un quartiere che quelli del luogo chiamano bandolero. Diciamo, difficile.

Sembra che quella palestra sia lì da sempre. Una scritta sulle lamiere accoglie i piccoli atleti. Gimnasio de boxeo. Niños de Cuba. Centro Habana. E poi la bandiera nazionale e l’indirizzo email dell’associazione (associazionemalaika@gmail.com). Il ring è appoggiato in fondo a uno spazio che ha per confini tre palazzi. Mura annerite dal fumo e dal tempo, vernice scrostata, colori che hanno conservato appena un vago ricordo del passato. È un ritorno all’antico, a chi viene dalle palestre italiane sembra di fare un viaggio all’indietro sino agli anni dell’immediato dopoguerra quando tutto aveva l’odore della sofferenza e c’era tanta voglia di ricominciare.

Sotto, sull’asfalto, i ragazzini fanno ginnastica e mimano i colpi. Anche loro, come quei giovanotti iracheni di cui ho parlato qualche tempo fa, usano il muro come punching ball. Non si lamentano mai. Se ne stanno tutti in fila ad ascoltare le parole dei maestri. E sognano un futuro da campioni.

Gli insegnanti ufficiali e a tempo pieno sono Daniel Casanova e Jorge Donatiel, sono loro che quotidianamente faticano, soffrono e si entusiasmano per un lavoro che amano. Ma non è una rarità vedere da quelle parti Josè Gomez: oro olimpico ai Giochi 1980 e ai Mondiali del ’78. Uno che nella finale olimpica di Mosca è riuscito a battere Alexander Savchenko, il picchiatore sovietico che sino a quel punto del torneo aveva messo ko tutti i suoi rivali. A dare una mano c’è anche Alexander Lorenzo Limonta, ex pugile della nazionale e grande amico di Malaika. O addirittura il mitico Felix Savon, tre volte oro ai Giochi.

Parlare ai bambini, insegnare la nobile arte, fargli capire quanto sia importante il rispetto delle regole, delle persone, di se stessi. È questo il difficile compito dei maestri. E la boxe è il mezzo che usano con passione e amore.

Sono trentadue i giovani, dagli otto ai ventuno anni, che frequentano gratuitamente il gimnasio, la palestra a cielo aperto che ha catturato il cuore e la fantasia dei piccoli cubani. “Ricordatevi di me. Mi chiamo Kevin Zamora, sono il futuro campione di boxe della mia Cuba”, sguardo pacioso ma buon talento e tanta grinta per questo ragazzino di otto anni che cerca tra le sedici corde una risposta alle sue domande. È mancino. Come lo è il suo amico Erisdani, 10 anni. “La boxe è la mia grande passione. Un giorno difenderò i colori di Cuba ai Giochi Olimpici. Mi chiamo Erisdani Moiron”.

Malaika Aiuti per i Bambini è nata nei primi anni Novanta. Il progetto Cuba Boxeo è del 2013.

Samuel ha praticato il pugilato. Ha cominciato per caso. Viveva anche lui in un quartiere difficile, Barca a Bologna: un’alta concentrazione di alloggi popolari. Ogni mattina saliva sul 18, un autobus con due fermate a rischio: Barca, appunto, e Pilastro. In uno di quei giorni in cui ti sembra che l’unica soluzione sia menar le mani, Samuel si è sentito battere sulla spalla da un signore.

“Mi chiamo Tonino Tarozzi, faccio il maestro di boxe alla Sempre Avanti. Perché non vieni a trovarmi?”. Era appena nato uno splendido rapporto di stima e affetto che resiste ancora oggi che Tonino purtroppo non c’è più. Sammy la boxe l’ha fatta per molti anni. E a Cuba è anche andato ad allenarsi. Alexander Limonta lo ha portato in una palestra mitica intitolata a Kid Chocolate, nato Eligio Sardiñas Montalvo e diventato il primo campione del mondo cubano. In quel gimnasio il fuoriclasse caraibico si allenava, si preparava a stupire il mondo. C’era magia tra quelle vecchie mura e Samuel ne è rimasto contagiato per sempre. Innamorato di Cuba e della boxe.

Anche il rapporto con la Sempre Avanti Bologna si è fatto ogni giorno più forte. Ed è stata proprio la società emiliana a donare guantoni, fasce, paracolpi e molto altro ancora a Malaika. Non è detto che un giorno non si faccia un vero e proprio gemellaggio con doppia trasferta e relative esibizioni.

Samuel ha un passato da guida turistica e istruttore subacqueo. Ora edita un giornale, “L’appennino a cavallo”, che si occupa di eventi e trekking.

Lui e quelli di Malaika sono stati tra i primi a portare aiuti in Kenya e in molte altri Paesi africani o ad Haiti subito dopo il terremoto. Ogni volta hanno dovuto ingaggiare lunghe battaglie con le compagnie aeree (Kenya Airways, Turkish, Air France, Klm) per ottenere un costo accessibile per il trasporto della merce. Tanto per dare un’idea, quando sono andati ad Haiti hanno portato tre quintali di materiale sanitario…

Recentemente hanno raggiunto un accordo con Air France e Klm. Ora il trasporto non è più un problema. Malaika Aiuti per i Bambini si impegna su più fronti, sostenuta dalle proprie forze, dalla voglia del gruppo di fare qualcosa di concreto per chi soffre e dalle donazioni di materiale piuttosto che di soldi di chi ancora pensa che al mondo sia meglio vivere assieme che da soli, di chi è convinto che uno spazio comune sia di tutti e non di nessuno.

Samuel, Roberto, Daniela, Roberta, Alexander, Vanessa ed Eusebio hanno capito l’essenza del pugilato. Fortificare se stessi per capire gli altri e, scesi dal ring, lottare assieme a loro nel rispetto delle regole. Ancora un colpo a segno da parte di uno sport troppo spesso travolto dalle critiche di chi non lo conosce.

Se qualcuno di voi volesse contattarli, aiutarli o soltanto capire può chiedere amicizia sulla pagina Facebook di Malaika Aiuti per i Bambini o scrivere all’indirizzo email associazionemaialika@gmail.com.

Da boxeringweb.net

Laboxe e la mente 1: l'arte della guerra


Una inchiesta di Valeria Imbrogno*


Il pugilato è così: è tutto all'incontrario, si fa tutto all'incontrario. Nessuna persona andrebbe incontro ad un pericolo

"Dottore, una parte di me mi dice che io sto male e che non posso continuare così e che quando vengo qui da lei debbo raccontarle le cose che penso, ma un'altra parte di me, mi dice che io non conosco quelli che stanno male veramente".
In seduta il paziente comunicava spesso i suoi pensieri che riguardavano solo propositi di andare via, di liberarsi di quella situazione assurda dell'analisi. Finché una volta, l'analista si sentì toccato da una piccola richiesta che il paziente non si era mai lasciato sfuggire prima: "Mi stavo chiedendo perché mai una persona continui a venire in un posto da cui poi vorrebbe scappar via. E' assurdo. Mi aiuti per favore".
Il pugilato è così: è tutto all'incontrario, si fa tutto all'incontrario. Nessuna persona andrebbe incontro ad un pericolo, mentre il pugile va sempre verso i colpi dell'avversario, verso cio' che teme, ovvero verso la propria paura.
Essa appare come una questione tipicamente umana: struttura la rappresentazione che il soggetto produce di sé e, di conseguenza, del mondo che lo circonda e dei meccanismi con cui si autogestisce di fronte ad essa. E' un'emozione governata dall'istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza dell'individuo e si scatena ogni qualvolta si presenti un possibile rischio per la propria incolumità.
Il pugilato (come la seduta di psicoterapia del nostro paziente precedente), spesso puo' aiutare a gestire e controllare tutte quelle principali reazioni istintive alla paura che possono essere: difficoltà di concentrazione, fuga, protezione istintiva del proprio corpo, ricerca di aiuto (nel caso del pugilato un autoaiuto tramite un incremento della percezione della propria forza fisica).
La paura è talvolta causa anche di alcuni fenomeni di modifica comportamentale permanenti, identificati come sindromi ansiose: ciò accade quando la paura non è più scatenata dalla percezione di un reale pericolo, bensì dal timore che si possano verificare situazioni, apparentemente normalissime, ma che sono vissute dal soggetto con profondo disagio. In questo senso, la paura diventa l'espressione di uno stato mentale. Ecco perchè molti pugili, con sindromi ansiose, riescono ad affrontare i propri stati mentali sul ring, luogo in cui si sentono capaci di affrontare la paura con la propria forza fisica.
Infatti essa va situata tra i meccanismi di difesa dell'individuo: rappresenta uno stimolo per attivare reazioni che servono a difenderlo dai pericoli dell'ambiente. Un cerbiatto che non avesse paura di un leone non riuscirebbe a scappare e verrebbe eliminato.
Esiste dunque una paura esistenziale, che va mantenuta e non certo curata e una paura clinica, che acquista una dimensione negativa che, invece di proteggere, rende immobili e succubi. In questo caso, per poterci adattare c'è bisogno di riattivare il nostro organismo, utilizzando al massimo le nostre possibilità. Per affrontarla e sconfiggerla, si cercherà percio' una riattivazione sul piano fisico, come se si dovesse affrontare una lotta (il ring), e anche sul piano psicologico per poter tirar fuori tutto ciò che di meglio la propria personalità può dare.
Il pugilato puo' essere interpretato e visto proprio come metafora di riattivazione fisica e psichica di fronte ai pericoli: spesso infatti, psicologicamente il desiderio inconscio maggiore è quello di venir via da "quel ring". Eppure mai si rinuncia a lottare, ad affrontare la paura. Chiunque abbia praticato questo sport e sostiene che la paura, con il tempo e l'esperienza, scompare, mente. Non va mai via quella sensazione: non va via almeno fino a quando non arriva il primo pugno, quello che ti sveglia e ti riporta alle grida del tuo maestro (o dello psicoterapeuta). E colpisci, prendi e colpisci, finchè il timore non si fa più sentire.
Non è a vincere che si pensa, ma a colpire in maniera definitiva e desiderare con tutto te stesso che il tuo avversario non si rialzi, affinchè tutto finisca. Poi finisce ed è impensabile, non ci si crede, ma finisce. E' allora che, per la prima volta, si vede chi si ha di fronte: perchè ora, quando tutto è finito, ci si ritrova dall'altra parte.
Il tuo avversario è esattamente come te, uno che ha vissuto le tue stesse sensazioni nello stesso istante in cui le hai vissute tu: ha affrontato le tue stesse paure e per questo non riesci a volergli male. E' impensabile, ma gli vuoi bene perchè era lì con te a sconfiggere la paura.
Quando si sale sul ring dunque è la vita che combatte, i colpi che si ricevono sono la forza che fa andare avanti, l'avversario è il proprio cammino, che si vinca o si perda quello che resta è un passo in più per conoscersi. In fondo affrontare la paura sul ring rende tutto più semplice: si suda, si corre, si salta, si mettono i guantoni e se ce la si fa, si è uomini vincenti. L'oscuro fascino della metafora del pugilato ha a che fare tanto con la paura e con il coraggio di affrontarla, quanto con la vittoria su di essa.
Non a caso lo chiamano la noble art. La quotidianità infatti è determinata da vittorie, sconfitte e rivincite. Bisognerebbe diffidare da chi si descrive libero dalle proprie paure: è solo chi le teme che ha il coraggio di inseguirle. E comunque sia, il momento piu' bello su quel ring che è la vita, è l'abbraccio finale tra te stesso e la paura, perchè vuol dire che ce l'hai fatta!
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La boxe e la mente: 2 - Femminilità e pugilato

Io non sono una ragazza cattiva: non voglio che la gente pensi questo di me. Amo solo lo sport. Non m’interessa quello che dicono gli uomini della mia passione. Voglio fare quello che mi piace e niente è meglio che boxare e battere i maschi”. Sarah Alamiah, pugile giordana.

Anche oggi, si potrebbe ancora affermare, forse estremizzando, che l’essere umano inteso "normale" è maschio; la donna è una differenza, è il secondo sesso, l’altra roba, il non-uomo. Freud spiegava questa differenza con la teoria dell’invidia del pene. Partendo da questo concetto, forse un po’ troppo psicoanalitico, come si potrebbe oggi definire la femminilità? Quali sono le qualità che accomunano tutte le donne? Che cosa ci rende simili, al di là degli atteggiamenti e delle caratteristiche individuali?

A occhio e croce, un’idea me la sarei fatta. Ma è un’idea limitata alla mia esperienza: che essere donne, nel profondo, comporti una capacità di comunicare, condividere e collaborare. Che questa capacità sia la prima spinta dietro la creazione: di rapporti, di arte, di vita. Che le donne concepiscano la vita come un circolo, una rete, in cui ogni fattore, ogni elemento è contemporaneo, piuttosto che come una linea retta su cui le azioni si allineano ordinatamente verso un obiettivo. E quando tutto è presente allo stesso momento e allo stesso modo, diventa sempre più difficile e acrobatico procedere senza perdere di vista qualcosa. Una società femminile dovrebbe tenere conto di questa necessità, di questo modo di concepire il tempo e lo spazio, e venirle incontro in ogni modo.

Ma la società è maschio: comunicazione, condivisione e collaborazione sono secondarie rispetto ad azione, produttività e risultato. Molte donne, com’è noto, preferiscono allinearsi a questi principi: sterminare le avversarie, pur mantenendo negli atteggiamenti e nel vestiario le caratteristiche necessarie per guadagnarsi la definizione sociale di "femminilità", ed evitare lo stigma.

Il fatto che sia ancora necessario definire la femminilità, piuttosto che viverla liberamente in un mondo attrezzato per accoglierla, è già di per sé un problema. La sua essenza viene ancora vissuta come una manifestazione di debolezza, nonostante il fatto che molti uomini eterosessuali in carriera finiscano per beneficiarne di riflesso, mettendosi in casa una moglie che crea per loro la rete sociale, di affetti e di interessi che non sarebbero altrimenti in grado di mettere in piedi da soli. Finisce che il posto di una donna è a casa, ma solo perché portare la casa nella società è considerato svantaggioso, quando è anche solo vagamente considerato.

Essere donna e pugile mi permette di parlare di femminilità anche attraverso il pugilato e i suoi luoghi comuni: spesso mi è capitato di sentire frasi del tipo: “avverto l’inferiorità fisica delle donne.... sinceramente perdono gran parte della loro femminilità....la boxe comporta troppi pericoli per i connotati dei bei visi femminili”. La verità è che il problema , non è piu’ se la boxe sia adatta o meno alle donne. Il problema è: perchè si dovrebbe proibire alle donne di farlo?

Ho scoperto che esistono luoghi che assomigliano inesorabilmente a chi li ha creati. Un esempio è Il Toronto Newgirls Boxing Club. La prima palestra per donne pugili del Nord America: uno stanzone rettangolare diviso da pilastri di cemento, ring, attrezzi e sudore.

Se per gli uomini la boxe è una scorciatoia per uscire rabbiosamente da una situazione di prostrazione sociale o trampolino di lancio verso soldi e successo, per le donne si tratta di altro. Per le ragazze di questa palestra per esempio, il pugilato ha a che fare con la propria sfida personale contro la paura: perché essere donne indipendenti in una metropoli comporta la possibilità di doversi difendere da molestie, tentativi di rapina e di violenza sessuale. C'è chi vuole un esercizio fisico di un certo livello, chi desidera combattere sul ring, chi ha bisogno di ritrovare sicurezza partendo da una fiducia nelle proprie possibilità di difesa.

La boxe femminile non ha grandezza. Dà dignità, ma non distribuisce posti nella storia. Per le donne non c’è la luce dei riflettori perché le donne non hanno bisogno d'interpretare i drammi della vita per avere un contatto diretto con il dolore: Sarah Alamiah, una studentessa giordana di 17 anni, fa parte di una mini-squadra di pugili donne, ad Amman, in Giordania. Si allena con passione e determinazione nella principale palestra di pugilato del paese, quella in cui si allenano i pugili giordani. La Giordania non a caso è il primo paese della storia del mondo arabo ad avere una squadra femminile di pugilato. Molti conservatori e tradizionalisti religiosi ritengono la boxe femminile uno sport immorale.Sarah, Susanne e Suzan stanno partecipando ad una competizione molto importante, dove il premio non è una medaglia di metallo prezioso, ma la loro femminilità e la vita stessa.

E ancora, Fahima, ragazza afghana di Kabul che, grazie al pugilato può saltellare liberamente sul posto, tenere le braccia in posizione di guardia e combattere, nel suo piccolo, per avere un po’ più di libertà. Fino al 2001 lo stadio nazionale di Kabul veniva utilizzato dai talebani per le esecuzioni pubbliche di donne e uomini, ora per le prime pugili afgane rappresenta la salvezza, un asilo dagli attentati nelle strade della città, e dai militari. L’allenamento è faticoso e reso ancora più duro dai mille strati di indumenti che le ragazze sono obbligate a indossare, velo compreso. Ma la posta in palio è altissima e possiede quel magnetismo e quella magia propri degli eventi speciali. Da un anno questo gruppo sogna a occhi aperti, grazie al pugilato, quello a cui tutti gli atleti aspirano, misurarsi nelle mitiche gare olimpiche, loro che ogni giorno sono obbligate a sfidare la vita.

Durante il medioevo talebano le donne non avevano il diritto neanche di avere questi pensieri.
La situazione è cambiata: per alcuni, la scelta della boxe come una delle discipline sportive che possono fare da apripista all’emancipazione femminile è discutibile: insegnare a dare ganci e diretti in questo paese viene letto come un incitamento alla violenza . In realtà, con la boxe è più facile abbattere lo stereotipo della donna afghana sottomessa e nascosta dietro il burqa blu: è uno sport che richiede tenacia fisica e mentale, e il ring è una metafora delle sfide che tutti i giorni le afgane devono affrontare.

Esempi che mi hanno lasciato a bocca aperta perchè descrivono indiscutibilmente la forza che il pugilato dona a noi donne: rischiando di apparire forse un po’ troppo femminista, gli uomini entrano in palestra per fame e per fama, per salire in cima al mondo, misurarsi con la tradizione degli avi, perché il quadrato è un album di famiglia da sfogliare e rinnovare. Per le donne è diverso: ha il fascino del proibito, è una prova di durezza. Le donne usano i guantoni contro una società che le ha volute in guanti.

Si difendono, non vogliono più essere vittime, vogliono mandare ko uno stereotipo di bellezza. Si amano anche così: aggressive, sporche di sangue e muscolose. Corpo che sente, si ammacca, restituisce forza. Alcune persone dicevano: a nessuno piace una ragazza con gli occhi neri e il naso rotto. L'ideale della femminilità non è mai una lei travestita da lui. Ci sono donne salite sul ring con onore che, proprio grazie a quell'occhio nero che “rovina” la faccia, si riappropriano finalmente del loro corpo all’apice della propria femminilità, vivendo un sogno che è già diventato realtà: le prossime Olimpiadi di Londra.

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* Valeria Imbrogno, pugile professionista e laureata in psicologia è una delle migliori atlete italiane in campo professionistico al quale si è affacciata recentemente. Fa parte della scuderia di Mario Loreni, la stessa di Cristian Marchetti. Dopo un lungo passato dilettantistico e parecchia attività anche nella Kickboxing, è passata al professionismo nel 2008 vincendo tutti i sei incontri sinora disputati. Da dilettante ha affrontato anche le nostre Valeria Leccardi (con cui ha pareggiato) e Simona Locatelli (due vittorie ed un pari per Simona). Ha anche disputato il Trofeo Città di Cremona a cui si riferisce la foto a lato ove venne sconfitta da un assurdo verdetto

La boxe e la mente: 3- Il bullismo e il pugilato

Cosa può fare un impiegato di Manhattan per diverstirsi il venerdì sera in tempi di recessione? Semplice, imita Brad Pitt e Edward Norton nel film "Fight Club ". Indossa i guantoni e se le dà di santa ragione con un pugile professionista. In realtà il fenomeno di questi incontri del tipo "il bello contro la bestia" si è diffuso parecchio e anzi, intriso forse troppo dei vecchi concetti di virilità, viene oggi utilizzato a fini commerciali anche in alcuni spot pubblicitari.

Un esempio palese della diffusione massiccia di questo fenomeno anche nel nostro paese è l’attualissimo spot di una marca d’abbigliamento in cui Fabrizio Corona, “bullo nostrano”, non perde occasione di indossare i panni di un pugile duro e vittorioso in una location proprio stile fight club.

La società di oggi manda dei messaggi in cui la violenza serve a primeggiare, dominare e avere successo. Ma perché proprio l'uso della violenza? L’avvento di una nuova sensibilità egocentrica più che altruista ha mutato il rapporto con l’immagine della violenza. Un esempio, per rispondere, lo si trova nello sport. Pochi anni fa, quasi tutti i giovani impazzivano per il wrestling che veniva trasmesso in televisione mostrando combattimenti e violenza senza regole. Nel pugilato, che è comunque uno sport in cui si combatte, le regole ci sono e c'è un grande rispetto per l'avversario; è il contrario della violenza, poiché insegna ai pugili ad essere uomini e a convivere pacificamente con gli altri. In carcere per esempio insegna ai ragazzi il rispetto per l’autorità, il sacrificio del lavoro in palestra ed in altri luoghi, la voglia di superare i propri limiti e soprattutto ad impiegare le proprie capacità fisiche e psicologiche al servizio di qualche buona causa piuttosto per intimorire qualche altro ragazzo.

Generalmente accade che i comportamenti vissuti in famiglia vengano riproposti nella relazione con i coetanei. Di solito il comportamento avviene per due meccanismi: quello dell'apprendimento e della rivalsa. Il bambino che in famiglia assiste a scene di violenza, tende a riportare questo comportamento in classe o nel suo ambiente. Mentre, un bambino che può aver vissuto sulla sua pelle la violenza, può essere predisposto a subirla anche fuori dal nucleo familiare. In genere il violento va a ricercare il ragazzo più debole, la cosiddetta vittima designata. Il ragazzo aggressivo pero’ non è meno problematico di quello che la violenza la subisce. Si deve infatti partire dal presupposto che l'aggressività fa parte della natura umana e che la si deve controllare e contenere. Azioni queste che vanno fatte fin dall'infanzia affinchè il fenomeno della violenza venga contenuto.

Non si diventa violenti o bulli all'improvviso: é importante osservare e lavorare il prima possibile su comportamenti aggressivi, perché la violenza è un’abitudine molto difficile da destrutturare quando si organizza in maniera forte e soprattutto impedisce di sviluppare competenze sociali, emozioni ed empatia, che servono per crescere in maniera armoniosa. Il potenziale aggressivo è lo strumento con cui l’uomo prova a misurarsi con la natura, con il prossimo e con se stesso: l’aggressività del pugilato non è fine a se stessa poichè il vero insegnamento è quello di rendere efficaci e costruttive le energie negative e distruttive.

Fromm diceva che si convive con un’ aggressività che per sua natura è neutra e volta all’affermazione positiva dell’uomo e una distruttiva stimolata dai processi culturali patologici. Per sua natura pero’ l’aggressività è forza vitale e non dovrebbe essere repressa.

L'aggressività tra gli esseri umani è sempre esistita, ma oggi il fenomeno è in aumento perché la società si è trasformata e si è purtroppo riempita di processi culturali patologici. In quella che viene definita aggressività naturale rientra, troppo spesso ancora, il concetto di virilità come desiderio di affermazione che si manifesta con un potenziale aggressivo: il prof. Mansfield definisce la virilità come “fiducia in una situazione di rischio il quale può essere tanto un pericolo quanto una situazione di competizione in cui si contesta l’autorità del soggetto stesso”. L’uomo virile è precisamente quello che non cambia il proprio comportamento a seconda delle circostanze e non ricorre all’inganno. Tuttavia oggi è semplicemente definita come machismo o forma di prepotenza di bassa lega.

La verità è che oggi questa virilità è disoccupata. Lo è perché per la prima volta nella storia si sta vivendo in una società neutrale rispetto ai generi, che si propone di annullare le differenze sessuali e quindi non ne definisce i diritti e i doveri. Non esiste alcun impiego onesto o onorevole per gli uomini virili. Così la virilità, e ovviamente anche la femminilità, non sono più modelli che possono guidare il comportamento.
Una verità credo che risieda proprio nel fatto che gli uomini sono troppo orgogliosi e il loro orgoglio li conduce al terrore. Per contrastare queste tendenze gli esseri umani dovrebbero pensare a se stessi come esseri dotati di diritti alla vita o alla libertà, anziché concentrarsi sulla dignità e l’orgoglio.
Fatelo presente al sig. Corona....

3 - Il bicchiere mezzo pieno

Tutto si decide lì nell’attimo prima: lì dove la paura inizia ad avere l’odore di olio di canfora.
Lo vedo entrare lentamente nello spogliatoio, togliersi i vestiti e appoggiarli su una gruccia, mettersi i pantaloncini e canotta e tutto il resto; una preghiera o qualsiasi altro gesto scaramantico, darsi un’occhiata allo specchio e i gesti a vuoto che riscaldano la mente.

“Ave Caesar, morituri te salutant”, dicevano i gladiatori prima di iniziare il combattimento: consapevolezza della possibilità di morire. Già, perché ogni pugile sa bene, dentro di sé, che non è del tutto escluso che egli potrebbe anche non scendere in verticale da quel ring. Cosa succede nella mente di un pugile e di un uomo prima di salire sul ring, mentre nello spogliatoio si passa il ghiaccio sul corpo, mentre si fascia le mani, mentre cammina lungo il corridoio che porta davanti alla platea?
E’ proprio in quei minuti passati nello spogliatoio che l’uomo comune diventa pugile: in quei pochi passi per arrivare alla porta, il pugile rivede tutta la propria vita, i sacrifici per arrivare fino lì, grazie ad una capacità grandissima della mente che è quella di non riconoscere fra una situazione realmente vissuta e una vividamente immaginata nei suoi particolare. Con la concentrazione e la visualizzazione di ciò che sarà sul quadrato il pugile, e così l’uomo nella propria vita, può vivere situazioni di vittoria o sconfitta, il segreto è solo capire a quale parte di bicchiere si è deciso di guardare proprio quel giorno.

Alla fatidica domanda riguardo a quale parte del bicchiere si guardi più spesso, non tutti rispondono il "bicchiere mezzo pieno". Una buona parte delle persone, infatti, tende a porre maggior attenzione al negativo, ovvero al “bicchiere mezzo vuoto". Sembrerà una banalità, ma il più delle volte diventa inevitabilmente un'abitudine per molti insoddisfatti o scontenti della propria vita. Vi sono individui che, affacciandosi alla vita, guardano o cercano di scorgerne le cose più piacevoli e chi invece, al contrario, guarda solo le cose più spiacevoli. Il perché di tale realtà è certamente da ricercare nelle esperienze di vita che ognuno di noi ha fatto, ovvero nello sviluppo e assetto mentale che ci siamo costruiti con le proprie esperienze personali.

Col pensiero positivo, si sente spesso dire che non ci si nasce: in alcune persone è più chiaro ed evidente, in altre è molto ridotto e va ricercato, potenziato e riformato. Questa forma di pensiero credo sia addirittura una filosofia di vita, una punto di osservazione ideale per tutte quelle persone che nella vita hanno scelto di essere felici.

E' un allenamento continuo e molto difficile: spostare il negativo, vedere positivo, stoppare i pensieri neri per far avanzare solo quelli chiari. Mano a mano, ciò che sembra uno sforzo diventa naturale. L'atleta e così anche l’uomo scopre che ha imparato a pensare positivo. E siccome il pensiero positivo è contagioso, senza rendersene pienamente conto, comincia addirittura ad insegnare a pensare in positivo a chi sta accanto a lui.

Prima tutto è precario, nulla rende solido l'agonista e la tecnica o il talento innato non sono sufficienti: senza un assetto immaginativo positivo si verifica inevitabilmente il fallimento. E questo è un puro dato di fatto. Ecco perché il mental training, o più semplicemente la nostra immaginazione positiva, è un fattore indispensabile per la forza, la costanza e la professionalità di un atleta agonista e di ciascuno di noi, nella vita.

Ma ora è giunto il momento di vuotare la mente, e pensare solo al match che la vita ci propone e…. ad un tratto un boato, le urla, le grida della gente e il proprio nome urlato a gran voce. Da quel momento esisti solo tu, la tua mente e le tue capacità.

Quando poi si concluderà l’incontro, qualsiasi sia stato l’esito del risultato, vinto o perso, l’adrenalina inizia velocemente a calare: si inizia automaticamente a rivedere le fasi salienti dell’incontro per cercare di classificarle in bene o in male, come per chiudere un capitolo. Ci si fa sempre e solo una domanda: ho dato il meglio di me stesso? Posso volgere lo sguardo al bicchiere mezzo pieno e sentirmi sereno e felice? Riconoscendo di averlo fatto oppure no, l’esperienza insegna che il massimo prima o poi lo si impara a dare e, se si riconosce di averlo fatto, si può giungere alla serenità, in qualunque caso.





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di Lun, 5 set 2016