Legge e sport
La situazione attuale del pugilato italianoA cura di Gualtiero Becchetti E’ dura, durissima per tutti; specialmente per chi non ha mai vinto niente di memorabile infilare la chiave nella porta della palestra e aprirla. E non un solo giorno… Storie di boxe: Malaika e la boxe pronti ad aiutare i bambini di CubaA cura di Dario Torromeo Malaika per me è sempre stato il titolo di una canzone di Miriam Makeba. Un testo bello e triste, accompagnato da una melodia struggente. Il racconto di un amore povero, di una grande e tormentata passione. Nei giorni scorsi ho sentito di nuovo quella parola che in swahili significa angelo, ma a volte può anche significare ragazzino. A pronunciarla è stato un signore con uno spiccato accento emiliano. Un ragazzo degli anni Sessanta.Lui è Samuel Sammy Fabbri e Malaika Aiuti per i Bambini è l’associazione che presiede. Assieme a un gruppo di amici Samuel lotta contro il turismo sessuale a Cuba, la povertà africana, la mancanza di medicinali in ogni zona povera del mondo. Da qualche tempo si sono messi in testa un’idea che a prima vista può sembrare folle, se sei ottimista puoi chiamarla ambiziosa, di sicuro mi piace definirla eccitante. Si chiama Progetto Cuba Boxeo. Portare il pugilato a Cuba è come pretendere di vendere ghiaccio agli eschimési. Ma se interpreti il concetto di sport come aiuto per chi rischia ogni giorno di perdersi sulla cattiva strada, allora le cose cambiano. Da quelle parti molti ragazzini e ragazzine hanno sperimentato sulla loro pelle che se non ti fai tante domande puoi guadagnare in una sola giornata molto di più di quanto i padri portino a casa dopo un mese di lavoro massacrante. L’obiettivo che Malaika si è prefisso è quello di far capire che alla fine di quel percorso c’è solo il buio, spesso la tragedia. Samuel e i suoi amici (Roberto Celi, Daniel Gombia, Roberta Paolini, Alexander Limonta, Vanessa Celi e il presidente onorario Eusebio Leal) hanno scelto la boxe come mezzo per aiutare quei bambini a interpretare meglio la vita. A qualcuno è sembrato strano che un’associazione umanitaria scegliesse il pugilato come ancora di salvezza. È sembrato strano a chi non conosce a fondo questo sport. “La boxe non è solo, come dice la mia mamma, due che si picchiano” mi racconta sorridendo Samuel. Col tempo in tanti hanno capito il concetto. Il primo ostacolo è stato quello di ottenere il riconoscimento dall’INDER (Istituto Nacional de deportes, educatiòn fisica y recraciòn). Il passato di Malaika come associazione umanitaria impegnata nel mondo attraverso la donazione di materiale sanitario, arti artificiali, medicine, articoli sportivi e musicali in Paesi con problemi diversi ha dato al gruppo un peso sociale importante. Sufficiente per convincire il governo cubano. Il ring è stato piazzato all’interno di un gruppo di palazzi cadenti e malandati tra calle San José e calle Aguila/Amistad, nel barrio Colòn all’Havana vecchia. Nel centro storico, in un quartiere che quelli del luogo chiamano bandolero. Diciamo, difficile. Sembra che quella palestra sia lì da sempre. Una scritta sulle lamiere accoglie i piccoli atleti. Gimnasio de boxeo. Niños de Cuba. Centro Habana. E poi la bandiera nazionale e l’indirizzo email dell’associazione (associazionemalaika@gmail.com). Il ring è appoggiato in fondo a uno spazio che ha per confini tre palazzi. Mura annerite dal fumo e dal tempo, vernice scrostata, colori che hanno conservato appena un vago ricordo del passato. È un ritorno all’antico, a chi viene dalle palestre italiane sembra di fare un viaggio all’indietro sino agli anni dell’immediato dopoguerra quando tutto aveva l’odore della sofferenza e c’era tanta voglia di ricominciare. Sotto, sull’asfalto, i ragazzini fanno ginnastica e mimano i colpi. Anche loro, come quei giovanotti iracheni di cui ho parlato qualche tempo fa, usano il muro come punching ball. Non si lamentano mai. Se ne stanno tutti in fila ad ascoltare le parole dei maestri. E sognano un futuro da campioni. Gli insegnanti ufficiali e a tempo pieno sono Daniel Casanova e Jorge Donatiel, sono loro che quotidianamente faticano, soffrono e si entusiasmano per un lavoro che amano. Ma non è una rarità vedere da quelle parti Josè Gomez: oro olimpico ai Giochi 1980 e ai Mondiali del ’78. Uno che nella finale olimpica di Mosca è riuscito a battere Alexander Savchenko, il picchiatore sovietico che sino a quel punto del torneo aveva messo ko tutti i suoi rivali. A dare una mano c’è anche Alexander Lorenzo Limonta, ex pugile della nazionale e grande amico di Malaika. O addirittura il mitico Felix Savon, tre volte oro ai Giochi. Parlare ai bambini, insegnare la nobile arte, fargli capire quanto sia importante il rispetto delle regole, delle persone, di se stessi. È questo il difficile compito dei maestri. E la boxe è il mezzo che usano con passione e amore. Sono trentadue i giovani, dagli otto ai ventuno anni, che frequentano gratuitamente il gimnasio, la palestra a cielo aperto che ha catturato il cuore e la fantasia dei piccoli cubani. “Ricordatevi di me. Mi chiamo Kevin Zamora, sono il futuro campione di boxe della mia Cuba”, sguardo pacioso ma buon talento e tanta grinta per questo ragazzino di otto anni che cerca tra le sedici corde una risposta alle sue domande. È mancino. Come lo è il suo amico Erisdani, 10 anni. “La boxe è la mia grande passione. Un giorno difenderò i colori di Cuba ai Giochi Olimpici. Mi chiamo Erisdani Moiron”. Malaika Aiuti per i Bambini è nata nei primi anni Novanta. Il progetto Cuba Boxeo è del 2013. Samuel ha praticato il pugilato. Ha cominciato per caso. Viveva anche lui in un quartiere difficile, Barca a Bologna: un’alta concentrazione di alloggi popolari. Ogni mattina saliva sul 18, un autobus con due fermate a rischio: Barca, appunto, e Pilastro. In uno di quei giorni in cui ti sembra che l’unica soluzione sia menar le mani, Samuel si è sentito battere sulla spalla da un signore. “Mi chiamo Tonino Tarozzi, faccio il maestro di boxe alla Sempre Avanti. Perché non vieni a trovarmi?”. Era appena nato uno splendido rapporto di stima e affetto che resiste ancora oggi che Tonino purtroppo non c’è più. Sammy la boxe l’ha fatta per molti anni. E a Cuba è anche andato ad allenarsi. Alexander Limonta lo ha portato in una palestra mitica intitolata a Kid Chocolate, nato Eligio Sardiñas Montalvo e diventato il primo campione del mondo cubano. In quel gimnasio il fuoriclasse caraibico si allenava, si preparava a stupire il mondo. C’era magia tra quelle vecchie mura e Samuel ne è rimasto contagiato per sempre. Innamorato di Cuba e della boxe. Anche il rapporto con la Sempre Avanti Bologna si è fatto ogni giorno più forte. Ed è stata proprio la società emiliana a donare guantoni, fasce, paracolpi e molto altro ancora a Malaika. Non è detto che un giorno non si faccia un vero e proprio gemellaggio con doppia trasferta e relative esibizioni. Samuel ha un passato da guida turistica e istruttore subacqueo. Ora edita un giornale, “L’appennino a cavallo”, che si occupa di eventi e trekking. Lui e quelli di Malaika sono stati tra i primi a portare aiuti in Kenya e in molte altri Paesi africani o ad Haiti subito dopo il terremoto. Ogni volta hanno dovuto ingaggiare lunghe battaglie con le compagnie aeree (Kenya Airways, Turkish, Air France, Klm) per ottenere un costo accessibile per il trasporto della merce. Tanto per dare un’idea, quando sono andati ad Haiti hanno portato tre quintali di materiale sanitario… Recentemente hanno raggiunto un accordo con Air France e Klm. Ora il trasporto non è più un problema. Malaika Aiuti per i Bambini si impegna su più fronti, sostenuta dalle proprie forze, dalla voglia del gruppo di fare qualcosa di concreto per chi soffre e dalle donazioni di materiale piuttosto che di soldi di chi ancora pensa che al mondo sia meglio vivere assieme che da soli, di chi è convinto che uno spazio comune sia di tutti e non di nessuno. Samuel, Roberto, Daniela, Roberta, Alexander, Vanessa ed Eusebio hanno capito l’essenza del pugilato. Fortificare se stessi per capire gli altri e, scesi dal ring, lottare assieme a loro nel rispetto delle regole. Ancora un colpo a segno da parte di uno sport troppo spesso travolto dalle critiche di chi non lo conosce. Se qualcuno di voi volesse contattarli, aiutarli o soltanto capire può chiedere amicizia sulla pagina Facebook di Malaika Aiuti per i Bambini o scrivere all’indirizzo email associazionemaialika@gmail.com. Da boxeringweb.net Laboxe e la mente 1: l'arte della guerra
Il pugilato è così: è tutto all'incontrario, si fa tutto all'incontrario. Nessuna persona andrebbe incontro ad un pericolo"Dottore, una parte di me mi dice che io sto male e che non posso continuare così e che quando vengo qui da lei debbo raccontarle le cose che penso, ma un'altra parte di me, mi dice che io non conosco quelli che stanno male veramente". La boxe e la mente: 2 - Femminilità e pugilato“Io non sono una ragazza cattiva: non voglio che la gente pensi questo di me. Amo solo lo sport. Non m’interessa quello che dicono gli uomini della mia passione. Voglio fare quello che mi piace e niente è meglio che boxare e battere i maschi”. Sarah Alamiah, pugile giordana.Anche oggi, si potrebbe ancora affermare, forse estremizzando, che l’essere umano inteso "normale" è maschio; la donna è una differenza, è il secondo sesso, l’altra roba, il non-uomo. Freud spiegava questa differenza con la teoria dell’invidia del pene. Partendo da questo concetto, forse un po’ troppo psicoanalitico, come si potrebbe oggi definire la femminilità? Quali sono le qualità che accomunano tutte le donne? Che cosa ci rende simili, al di là degli atteggiamenti e delle caratteristiche individuali? A occhio e croce, un’idea me la sarei fatta. Ma è un’idea limitata alla mia esperienza: che essere donne, nel profondo, comporti una capacità di comunicare, condividere e collaborare. Che questa capacità sia la prima spinta dietro la creazione: di rapporti, di arte, di vita. Che le donne concepiscano la vita come un circolo, una rete, in cui ogni fattore, ogni elemento è contemporaneo, piuttosto che come una linea retta su cui le azioni si allineano ordinatamente verso un obiettivo. E quando tutto è presente allo stesso momento e allo stesso modo, diventa sempre più difficile e acrobatico procedere senza perdere di vista qualcosa. Una società femminile dovrebbe tenere conto di questa necessità, di questo modo di concepire il tempo e lo spazio, e venirle incontro in ogni modo. Ma la società è maschio: comunicazione, condivisione e collaborazione sono secondarie rispetto ad azione, produttività e risultato. Molte donne, com’è noto, preferiscono allinearsi a questi principi: sterminare le avversarie, pur mantenendo negli atteggiamenti e nel vestiario le caratteristiche necessarie per guadagnarsi la definizione sociale di "femminilità", ed evitare lo stigma. Il fatto che sia ancora necessario definire la femminilità, piuttosto che viverla liberamente in un mondo attrezzato per accoglierla, è già di per sé un problema. La sua essenza viene ancora vissuta come una manifestazione di debolezza, nonostante il fatto che molti uomini eterosessuali in carriera finiscano per beneficiarne di riflesso, mettendosi in casa una moglie che crea per loro la rete sociale, di affetti e di interessi che non sarebbero altrimenti in grado di mettere in piedi da soli. Finisce che il posto di una donna è a casa, ma solo perché portare la casa nella società è considerato svantaggioso, quando è anche solo vagamente considerato. Essere donna e pugile mi permette di parlare di femminilità anche attraverso il pugilato e i suoi luoghi comuni: spesso mi è capitato di sentire frasi del tipo: “avverto l’inferiorità fisica delle donne.... sinceramente perdono gran parte della loro femminilità....la boxe comporta troppi pericoli per i connotati dei bei visi femminili”. La verità è che il problema , non è piu’ se la boxe sia adatta o meno alle donne. Il problema è: perchè si dovrebbe proibire alle donne di farlo? Ho scoperto che esistono luoghi che assomigliano inesorabilmente a chi li ha creati. Un esempio è Il Toronto Newgirls Boxing Club. La prima palestra per donne pugili del Nord America: uno stanzone rettangolare diviso da pilastri di cemento, ring, attrezzi e sudore. Se per gli uomini la boxe è una scorciatoia per uscire rabbiosamente da una situazione di prostrazione sociale o trampolino di lancio verso soldi e successo, per le donne si tratta di altro. Per le ragazze di questa palestra per esempio, il pugilato ha a che fare con la propria sfida personale contro la paura: perché essere donne indipendenti in una metropoli comporta la possibilità di doversi difendere da molestie, tentativi di rapina e di violenza sessuale. C'è chi vuole un esercizio fisico di un certo livello, chi desidera combattere sul ring, chi ha bisogno di ritrovare sicurezza partendo da una fiducia nelle proprie possibilità di difesa. La boxe femminile non ha grandezza. Dà dignità, ma non distribuisce posti nella storia. Per le donne non c’è la luce dei riflettori perché le donne non hanno bisogno d'interpretare i drammi della vita per avere un contatto diretto con il dolore: Sarah Alamiah, una studentessa giordana di 17 anni, fa parte di una mini-squadra di pugili donne, ad Amman, in Giordania. Si allena con passione e determinazione nella principale palestra di pugilato del paese, quella in cui si allenano i pugili giordani. La Giordania non a caso è il primo paese della storia del mondo arabo ad avere una squadra femminile di pugilato. Molti conservatori e tradizionalisti religiosi ritengono la boxe femminile uno sport immorale.Sarah, Susanne e Suzan stanno partecipando ad una competizione molto importante, dove il premio non è una medaglia di metallo prezioso, ma la loro femminilità e la vita stessa. E ancora, Fahima, ragazza afghana di Kabul che, grazie al pugilato può saltellare liberamente sul posto, tenere le braccia in posizione di guardia e combattere, nel suo piccolo, per avere un po’ più di libertà. Fino al 2001 lo stadio nazionale di Kabul veniva utilizzato dai talebani per le esecuzioni pubbliche di donne e uomini, ora per le prime pugili afgane rappresenta la salvezza, un asilo dagli attentati nelle strade della città, e dai militari. L’allenamento è faticoso e reso ancora più duro dai mille strati di indumenti che le ragazze sono obbligate a indossare, velo compreso. Ma la posta in palio è altissima e possiede quel magnetismo e quella magia propri degli eventi speciali. Da un anno questo gruppo sogna a occhi aperti, grazie al pugilato, quello a cui tutti gli atleti aspirano, misurarsi nelle mitiche gare olimpiche, loro che ogni giorno sono obbligate a sfidare la vita. Durante il medioevo talebano le donne non avevano il diritto neanche di avere questi pensieri. Esempi che mi hanno lasciato a bocca aperta perchè descrivono indiscutibilmente la forza che il pugilato dona a noi donne: rischiando di apparire forse un po’ troppo femminista, gli uomini entrano in palestra per fame e per fama, per salire in cima al mondo, misurarsi con la tradizione degli avi, perché il quadrato è un album di famiglia da sfogliare e rinnovare. Per le donne è diverso: ha il fascino del proibito, è una prova di durezza. Le donne usano i guantoni contro una società che le ha volute in guanti. Si difendono, non vogliono più essere vittime, vogliono mandare ko uno stereotipo di bellezza. Si amano anche così: aggressive, sporche di sangue e muscolose. Corpo che sente, si ammacca, restituisce forza. Alcune persone dicevano: a nessuno piace una ragazza con gli occhi neri e il naso rotto. L'ideale della femminilità non è mai una lei travestita da lui. Ci sono donne salite sul ring con onore che, proprio grazie a quell'occhio nero che “rovina” la faccia, si riappropriano finalmente del loro corpo all’apice della propria femminilità, vivendo un sogno che è già diventato realtà: le prossime Olimpiadi di Londra. ------ * Valeria Imbrogno, pugile professionista e laureata in psicologia è una delle migliori atlete italiane in campo professionistico al quale si è affacciata recentemente. Fa parte della scuderia di Mario Loreni, la stessa di Cristian Marchetti. Dopo un lungo passato dilettantistico e parecchia attività anche nella Kickboxing, è passata al professionismo nel 2008 vincendo tutti i sei incontri sinora disputati. Da dilettante ha affrontato anche le nostre Valeria Leccardi (con cui ha pareggiato) e Simona Locatelli (due vittorie ed un pari per Simona). Ha anche disputato il Trofeo Città di Cremona a cui si riferisce la foto a lato ove venne sconfitta da un assurdo verdetto La boxe e la mente: 3- Il bullismo e il pugilatoCosa può fare un impiegato di Manhattan per diverstirsi il venerdì sera in tempi di recessione? Semplice, imita Brad Pitt e Edward Norton nel film "Fight Club ". Indossa i guantoni e se le dà di santa ragione con un pugile professionista. In realtà il fenomeno di questi incontri del tipo "il bello contro la bestia" si è diffuso parecchio e anzi, intriso forse troppo dei vecchi concetti di virilità, viene oggi utilizzato a fini commerciali anche in alcuni spot pubblicitari. Un esempio palese della diffusione massiccia di questo fenomeno anche nel nostro paese è l’attualissimo spot di una marca d’abbigliamento in cui Fabrizio Corona, “bullo nostrano”, non perde occasione di indossare i panni di un pugile duro e vittorioso in una location proprio stile fight club. La società di oggi manda dei messaggi in cui la violenza serve a primeggiare, dominare e avere successo. Ma perché proprio l'uso della violenza? L’avvento di una nuova sensibilità egocentrica più che altruista ha mutato il rapporto con l’immagine della violenza. Un esempio, per rispondere, lo si trova nello sport. Pochi anni fa, quasi tutti i giovani impazzivano per il wrestling che veniva trasmesso in televisione mostrando combattimenti e violenza senza regole. Nel pugilato, che è comunque uno sport in cui si combatte, le regole ci sono e c'è un grande rispetto per l'avversario; è il contrario della violenza, poiché insegna ai pugili ad essere uomini e a convivere pacificamente con gli altri. In carcere per esempio insegna ai ragazzi il rispetto per l’autorità, il sacrificio del lavoro in palestra ed in altri luoghi, la voglia di superare i propri limiti e soprattutto ad impiegare le proprie capacità fisiche e psicologiche al servizio di qualche buona causa piuttosto per intimorire qualche altro ragazzo. Generalmente accade che i comportamenti vissuti in famiglia vengano riproposti nella relazione con i coetanei. Di solito il comportamento avviene per due meccanismi: quello dell'apprendimento e della rivalsa. Il bambino che in famiglia assiste a scene di violenza, tende a riportare questo comportamento in classe o nel suo ambiente. Mentre, un bambino che può aver vissuto sulla sua pelle la violenza, può essere predisposto a subirla anche fuori dal nucleo familiare. In genere il violento va a ricercare il ragazzo più debole, la cosiddetta vittima designata. Il ragazzo aggressivo pero’ non è meno problematico di quello che la violenza la subisce. Si deve infatti partire dal presupposto che l'aggressività fa parte della natura umana e che la si deve controllare e contenere. Azioni queste che vanno fatte fin dall'infanzia affinchè il fenomeno della violenza venga contenuto. Non si diventa violenti o bulli all'improvviso: é importante osservare e lavorare il prima possibile su comportamenti aggressivi, perché la violenza è un’abitudine molto difficile da destrutturare quando si organizza in maniera forte e soprattutto impedisce di sviluppare competenze sociali, emozioni ed empatia, che servono per crescere in maniera armoniosa. Il potenziale aggressivo è lo strumento con cui l’uomo prova a misurarsi con la natura, con il prossimo e con se stesso: l’aggressività del pugilato non è fine a se stessa poichè il vero insegnamento è quello di rendere efficaci e costruttive le energie negative e distruttive. Fromm diceva che si convive con un’ aggressività che per sua natura è neutra e volta all’affermazione positiva dell’uomo e una distruttiva stimolata dai processi culturali patologici. Per sua natura pero’ l’aggressività è forza vitale e non dovrebbe essere repressa. L'aggressività tra gli esseri umani è sempre esistita, ma oggi il fenomeno è in aumento perché la società si è trasformata e si è purtroppo riempita di processi culturali patologici. In quella che viene definita aggressività naturale rientra, troppo spesso ancora, il concetto di virilità come desiderio di affermazione che si manifesta con un potenziale aggressivo: il prof. Mansfield definisce la virilità come “fiducia in una situazione di rischio il quale può essere tanto un pericolo quanto una situazione di competizione in cui si contesta l’autorità del soggetto stesso”. L’uomo virile è precisamente quello che non cambia il proprio comportamento a seconda delle circostanze e non ricorre all’inganno. Tuttavia oggi è semplicemente definita come machismo o forma di prepotenza di bassa lega. La verità è che oggi questa virilità è disoccupata. Lo è perché per la prima volta nella storia si sta vivendo in una società neutrale rispetto ai generi, che si propone di annullare le differenze sessuali e quindi non ne definisce i diritti e i doveri. Non esiste alcun impiego onesto o onorevole per gli uomini virili. Così la virilità, e ovviamente anche la femminilità, non sono più modelli che possono guidare il comportamento. 3 - Il bicchiere mezzo pienoTutto si decide lì nell’attimo prima: lì dove la paura inizia ad avere l’odore di olio di canfora. “Ave Caesar, morituri te salutant”, dicevano i gladiatori prima di iniziare il combattimento: consapevolezza della possibilità di morire. Già, perché ogni pugile sa bene, dentro di sé, che non è del tutto escluso che egli potrebbe anche non scendere in verticale da quel ring. Cosa succede nella mente di un pugile e di un uomo prima di salire sul ring, mentre nello spogliatoio si passa il ghiaccio sul corpo, mentre si fascia le mani, mentre cammina lungo il corridoio che porta davanti alla platea? Alla fatidica domanda riguardo a quale parte del bicchiere si guardi più spesso, non tutti rispondono il "bicchiere mezzo pieno". Una buona parte delle persone, infatti, tende a porre maggior attenzione al negativo, ovvero al “bicchiere mezzo vuoto". Sembrerà una banalità, ma il più delle volte diventa inevitabilmente un'abitudine per molti insoddisfatti o scontenti della propria vita. Vi sono individui che, affacciandosi alla vita, guardano o cercano di scorgerne le cose più piacevoli e chi invece, al contrario, guarda solo le cose più spiacevoli. Il perché di tale realtà è certamente da ricercare nelle esperienze di vita che ognuno di noi ha fatto, ovvero nello sviluppo e assetto mentale che ci siamo costruiti con le proprie esperienze personali. Col pensiero positivo, si sente spesso dire che non ci si nasce: in alcune persone è più chiaro ed evidente, in altre è molto ridotto e va ricercato, potenziato e riformato. Questa forma di pensiero credo sia addirittura una filosofia di vita, una punto di osservazione ideale per tutte quelle persone che nella vita hanno scelto di essere felici. E' un allenamento continuo e molto difficile: spostare il negativo, vedere positivo, stoppare i pensieri neri per far avanzare solo quelli chiari. Mano a mano, ciò che sembra uno sforzo diventa naturale. L'atleta e così anche l’uomo scopre che ha imparato a pensare positivo. E siccome il pensiero positivo è contagioso, senza rendersene pienamente conto, comincia addirittura ad insegnare a pensare in positivo a chi sta accanto a lui. Prima tutto è precario, nulla rende solido l'agonista e la tecnica o il talento innato non sono sufficienti: senza un assetto immaginativo positivo si verifica inevitabilmente il fallimento. E questo è un puro dato di fatto. Ecco perché il mental training, o più semplicemente la nostra immaginazione positiva, è un fattore indispensabile per la forza, la costanza e la professionalità di un atleta agonista e di ciascuno di noi, nella vita. Ma ora è giunto il momento di vuotare la mente, e pensare solo al match che la vita ci propone e…. ad un tratto un boato, le urla, le grida della gente e il proprio nome urlato a gran voce. Da quel momento esisti solo tu, la tua mente e le tue capacità. Quando poi si concluderà l’incontro, qualsiasi sia stato l’esito del risultato, vinto o perso, l’adrenalina inizia velocemente a calare: si inizia automaticamente a rivedere le fasi salienti dell’incontro per cercare di classificarle in bene o in male, come per chiudere un capitolo. Ci si fa sempre e solo una domanda: ho dato il meglio di me stesso? Posso volgere lo sguardo al bicchiere mezzo pieno e sentirmi sereno e felice? Riconoscendo di averlo fatto oppure no, l’esperienza insegna che il massimo prima o poi lo si impara a dare e, se si riconosce di averlo fatto, si può giungere alla serenità, in qualunque caso. |